«La Rassegna della letteratura italiana» Schede goldoniane (1953-1973)

Direttore della «Rassegna della letteratura italiana» dal 1953 al 1992, Binni, oltre a pubblicarvi saggi e recensioni anche di argomento goldoniano, presenti in questa edizione, vi tiene stabilmente la rubrica «Settecento» di segnalazioni bibliografiche; raccogliamo in questa appendice un’ampia scelta delle “schede” goldoniane dal 1953 al 1973, puntuale ricognizione dello stato degli studi goldoniani nell’arco di un ventennio.

SCHEDE

Carlo Goldoni, Tutte le opere, a cura di Giuseppe Ortolani, vol. XII, Milano, Mondadori, 1952, pp. 1231.

Questo dodicesimo volume dell’edizione goldoniana dei classici Mondadori (altri due ne restano per il completamento dell’opera) contiene gli ultimi drammi giocosi (da La buona figliuola maritata del 1761 al Talismano del 1779), i drammi seri per musica (La generosità politica del ’36, Gustavo primo re di Svezia del ’40, Oronte re de’ Sciti del ’40, Statira del ’41, Tigrane del ’41, e Germondo di data incerta), Cantate e Serenate (prima del ’40: La ninfa saggia, Gli amanti felici, Le quattro stagioni, Il coro delle muse; piú tarde La pace consolata, L’amor della patria, L’oracolo del Vaticano), Oratorii (L’unzione del reale profeta Davide, scritto a Roma nel ’59, e la curiosissima Magdalenae conversio del ’39, in un latino arcadizzato fra popolaresco e melodrammatico, con un hostis infernalis sub aspectu juvenis che canta alla Maddalena ariette di questo tipo: «Mortem meam si vis, ingrata, / veni cito me necare; / moriar ergo, sed amare / volo te, sine pietate ecc.»), rappresentazioni allegoriche (la farsa satirica piuttosto goffa della Metempsicosi e Il disinganno in corte, allegoria della scarsa fortuna del Goldoni a Versailles), introduzioni e ringraziamenti teatrali di varie epoche, residui d’un numero grande di Prologhi e Addii andati perduti, e finalmente alcuni scenari (Le fils d’Arlequin perdu et retrouvé, Les vingt deux infortunes d’Arlequin, Le portrait d’Arlequin, Les métamorphoses d’Arlequin, La bague magique e l’apocrifo Gli eredi ab intestato), tutti interessanti per la fortuna del Goldoni in Francia, legata, come si sa, alla sua fama di continuatore della commedia dell’arte, di abilissimo costruttore di «imbrogli» risolti con inarrivabile fecondità di giuoco scenico. Il volume interessa cosí soprattutto per i periodi estremi dell’attività goldoniana: il periodo iniziale del suo noviziato incerto ed eclettico (con le prime tragedie e gli intermezzi riportati nei voll. IX e X delle Opere) e il periodo francese con lo sviluppo dei melodrammi giocosi che proseguono l’esercizio di linguaggio musicale e di stilizzazione di dialogo e scena, che tanto avevano fruttato nei riguardi della maniera poetica piú intensa e matura del grande periodo «veneziano». Il testo, come negli altri volumi, riproduce quello della edizione del Municipio di Venezia e si arricchisce delle note accurate (anche se piú utili da un punto di vista informativo che come indicazione critica) di Giuseppe Ortolani.

«La Rassegna della letteratura italiana», a. 57°, serie VII, n. 3, luglio-settembre 1953

Carlo Goldoni, Arlecchino servitore di due padroni; saggio e note di Francesco Zappa, Roma, Edizioni O. Barjes, 1953, pp. XXX-96.

Nel saggio premesso a questo commento della celebre commedia goldoniana, lo Zappa traccia rapidamente una misurata descrizione del cammino della poesia del Goldoni reagendo al duplice eccesso delle interpretazioni che puntano, in antitesi, sulla totale novità del «riformatore» o sul legame e sulla continuazione della commedia dell’arte da parte di quella goldoniana, e delle collocazioni storiche che trattengono Goldoni in Arcadia o che viceversa ne accentuano il carattere progressivo e illuministico. Non accettando la recente interpretazione di Elio Vittorini con la sua formulazione certo eccessiva di un messaggio di libertà e di un Goldoni assertore del valore mondano «delle cose degli uomini» (ma tuttavia assai stimolante per nuovi studi che meglio dimostrino quanto di serio e convinto vi è pure nella gioiosa affermazione vitale del poeta delle Baruffe), lo Zappa tende a riconfermare il limite tradizionale, dal De Sanctis al Momigliano, proprio nel fermarsi del Goldoni «alla superficie di una realtà», a riassorbire nella «ilarità» ogni possibile motivo di critica alla società, ma anche a precisare (sulla scorta evidente del Gimmelli) nell’arte goldoniana un centro poetico nella «scoperta del mondo veneziano» e nella «rievocazione di motivi della giovinezza». Piú interessanti ed efficaci delle pagine iniziali (di cui soprattutto notevole il duttile raccordo fra commedia dell’arte e «riforma») sono quelle in cui lo Zappa analizza il Servitore di due padroni precisandone l’origine, lo sviluppo da scenario a commedia scritta (in realtà una specie di «trascrizione goldoniana di una commedia a soggetto» e, diremo noi, con il singolare recupero attraverso la parola di un ritmo scenico allo stato piú puro), il significato nella storia goldoniana, a cui ben serve anche la considerazione della straordinaria fortuna goduta in Europa e in moderne esperienze teatrali che permisero una nuova (anche se sforzata) attenzione alla vitalità goldoniana proprio da quel punto di vista di teatro puro da cui ad es. il Miclacewsky aveva prima condannato Goldoni come «petit bourgeois rassis et plein de bon sens». Buono è cosí l’esame dei personaggi e specialmente del Truffaldino (piú forzato è l’anticipo di Mirandolina in Smeraldina) in cui piú intenso e limpido è il giuoco sollecitante fra azione e battuta, l’esercizio bellissimo delle sue trovate, l’incantevole incontro fra la maschera e la freschezza nuova del popolano che in quella si esprime. E buona sostanzialmente è la collocazione della commedia in un periodo in cui il Goldoni assimila con singolare forza originale una secolare esperienza teatrale e muove alle sue piú vere conquiste dopo aver fatto i suoi conti con la tradizione teatrale dell’arte piú che con la commedia per letterati di cui egli sentiva le esigenze di riforma ma insieme l’assoluta incapacità di comunicare con un pubblico vario e vitale. Diremo ancora che su questa strada si potrebbe ancor meglio precisare come il Goldoni con questa commedia (proprio mentre in Toscana arricchiva la sua esperienza arcadica letteraria) mostrava di riconoscere difettivo il suo primo tentativo di una riforma culminata nella Donna di garbo, ritornando ad un piú intimo contatto con la commedia dell’arte ed assimilandone il succo piú vivo, il valore di spettacolo e di ritmo teatrale, mentre ne respingeva con forza piú geniale e nuova la scurrilità, la fissità delle maschere, la mancanza di organicità.

Il commento a piè di pagina realizza poi con sufficiente efficacia l’esame della commedia soprattutto nella attenzione alla tecnica scenica e al linguaggio, che esprime, limpido e sobrio, la fusione di umanità e di stilizzazione ritmica, di ingentilimento e di popolarità, lo slancio del personaggio e il suo intelligente e perfetto controllo.

«La Rassegna della letteratura italiana», a. 58°, serie VII, n. 1, gennaio-marzo 1954

Roberto Minervini, Un precursore napoletano del Goldoni, «Arena», 1954, 5, pp. 245-249.

Questo breve saggio aggiunge alcune notizie biografiche sul commediografo napoletano Nicola Maresca di cui già aveva dato un rapido cenno il Croce nella sua opera Il teatro di Napoli dal Rinascimento alla fine dal secolo decimottavo (che doveva essere citata proprio per la sua importanza di un primo quadro storico-critico della commedia napoletana e dei suoi rapporti con l’opera buffa che attende di essere sviluppata con ricerche piú particolari) e dà un riassunto della sua commedia La Diana o lo Lavenaro del 1706 indicando nell’attenzione alla piazzetta del Lavinario e alla sua piccola vita popolare un precedente della commedia goldoniana corale e veneziana, cosí come in genere della «riforma» goldoniana nel suo speciale rapporto con la commedia dell’arte e nella sua ispirazione realistica. In verità, come può risultare anche dal fatto che il Maresca tornò poi a forme convenzionali nella Milla e soprattutto nella interrotta Lena, il «precorrimento» goldoniano del commediografo napoletano riguarda solo il gusto del popolare e della animata rappresentazione di una piazzetta cittadina e, mentre pare in genere troppo positivamente valutata la superficiale somiglianza fra una istintiva soluzione teatrale sollecitata da una tradizione napoletana di realismo pittoresco, che troverà poi interpretazione piú complessa nel gusto di movimento animato e numeroso del Liveri e nell’opera buffa (con caratteri assai diversi dalla poetica simpatia goldoniana per la vita quotidiana, per la realtà umana), e la riforma goldoniana operata in una coscienza ben diversamente profonda delle condizioni del teatro italiano e delle esigenze implicite nella riforma arcadica e di quelle di una fase avanzata della civiltà settecentesca, non si può accettare (e sarebbe discorso troppo lungo rispetto alla esiguità del pretesto) l’affermazione secondo cui il Maresca, «come» il Goldoni, «vede i suoi personaggi in funzione di maschere: maschera dell’avarizia, dell’amore, della bugia, della furbizia», ché nel Goldoni le vecchie maschere perdono appunto il loro carattere di maschere e svolgono semmai quanto di umano e di popolare era in loro cristallizzato in una nuova multiformità e individuazione di atteggiamenti, di psicologiche e poetiche determinazioni.

Decennio goldoniano: I – Nicola Mancini, La critica dell’ultimo decennio. II – Giorgio Pullini, Spettacoli del dopoguerra, «Lettere italiane», VI (1954), 2, pp. 191-201.

Piuttosto deludente è il primo saggio che contiene una breve e poco impegnativa rassegna degli studi sul Goldoni nel dopoguerra con lacune non motivate (ad es. il volume, anche se di scarso valore, di Giovanni Battista De Sanctis, Carlo Goldoni, Padova, 1948, o i saggi di Bacchelli e di E. Levi in «Studi teatrali», del 1952) e con altre spiegate per ragioni estrinseche, come quella delle pagine del Fubini nel saggio Arcadia e illuminismo o del capitolo del Compendio del Sapegno. Piú interessante è il saggio del Pullini che mira a distinguere le varie interpretazioni teatrali del Goldoni negli anni piú recenti: quella piú tradizionale delle compagnie dialettali (Baseggio e Micheluzzi), quella «molto suggestiva e criticamente sofisticata» di E. Ferrieri, l’esperimento realistico di Luchino Visconti, l’interpretazione piú varia e volutamente eclettica di Giorgio Strehler, specie (dopo una prima prova di cui il Pullini vede i rischi di una interpretazione in diretti moduli di commedia dell’arte) nelle sue piú recenti forme di aderenza alle particolari esigenze di singole fasi ed opere del teatro goldoniano. Se le notate differenze di interpretazioni autorizzano a rilevare l’interesse attualmente vivo per il Goldoni, non ci sembra però che esse rappresentino, appunto per la loro ricchezza, che è spesso diversità di interpretazioni mal conciliabili, «le condizioni necessarie per sostenere un complesso goldoniano nazionale».

Carlo Goldoni, Opere, con appendice del teatro comico nel Settecento, a cura di Filippo Zampieri, Milano-Napoli, Ricciardi, 1954, pp. 1152.

Autore di un pregevole profilo della storia della critica goldoniana pubblicato nel primo numero del ’53 di questa rivista (e, in forma piú ampia, nel II vol. dei Classici italiani nella storia della critica, in corso di stampa presso la Nuova Italia di Firenze), Filippo Zampieri conferma la sua precisa conoscenza dell’opera del Goldoni e del relativo problema critico quale si è venuto chiarendo negli studi piú recenti, sia nella scelta antologica sia nella breve ma chiara ed equilibrata introduzione. Questa, piú che puntare su di una centrale caratterizzazione del nucleo poetico goldoniano, si svolge in una rapida descrizione della esperienza goldoniana fra vita e teatro, recuperando entro le successive fasi dell’attività goldoniana notazioni efficaci anche se già precisate dalla critica moderna circa il carattere della goldoniana visione della vita, circa l’intuizione del rapporto fra vita e teatro che distingue, al di là della tecnica, la riforma goldoniana da quella riforma arcadica piú letteraria ed accademica dei cui stimoli pure Goldoni usufruí, circa i contatti con la commedia dell’arte, che, piú consapevolmente utilizzata nel Servitore di due padroni, condizionerebbe un filone dell’arte goldoniana culminante nel Ventaglio, nel suo valore di ritmo scenico e dialogico, o circa il contrasto fra una evoluzione nell’opera goldoniana della lingua dialettale nei confronti di quella italiana arricchita solo di«un piú accorto ed elegante contrappunto dialogico». Si potrà osservare che nella giusta individuazione delle varie fasi dell’attività goldoniana sarebbe stato possibile uno scavo piú profondo di certi passaggi e una piú netta scansione delle varie se pur non discordanti tendenze dell’arte goldoniana, con una piú decisa valutazione della poesia delle opere maggiori anche alla luce di una discussione non esaurita su quel valore poetico del Goldoni che De Sanctis e Croce negarono, cosí come uno scavo maggiore anche in periodi di minore forza creativa come quello del ’53-58 avrebbe potuto meglio motivare, con la presenza di esercizi minori ma non trascurabili di attenzione psicologica, di gusto delle sfumature e di stati d’animo meditativi, nello stesso uso del verso, la singolare finezza degli Innamorati: e cosí non sarebbe stato inutile un piú preciso cenno a quel lungo esercizio di melodrammi giocosi, di intermezzi per musica come acquisto, nel contatto con la musica buffa, di moduli comici e farseschi secondari, ma utilizzati specie nelle tabernarie della maturità, come esperienza di caricature e figurine, di disegni piú schizzati e veloci. Ma nel complesso e proprio nei limiti di una presentazione armonica e accordata con i migliori risultati della critica contemporanea, l’introduzione dello Zampieri è quanto mai felice e adatta a un’antologia che non voglia imporre un’interpretazione e una scelta troppo risolutamente personale. Per quel che riguarda la scelta, che evidentemente tende a contemperare l’esigenza di un criterio di valore con quello di una documentazione dello svolgimento goldoniano nelle sue varie fasi, essa ci sembra molto oculata anche se (ma la colpa è da imputare solo agli inevitabili limiti di spazio) si potrebbe rimpiangere la mancanza fra le commedie intere della Figlia obbediente e soprattutto della Casa nova (le commedie riportate per intero sono: La locandiera, Il campiello, Gli innamorati, I Rusteghi, Le smanie della villeggiatura, Sior Todero brontolon, Le baruffe chiozzotte, Il ventaglio oltre al giovanile intermezzo Il gondoliere veneziano) e fra le commedie riportate per scene o gruppi di scene (L’uomo di mondo, La donna di garbo, Il servitore di due padroni, La vedova scaltra, La putta onorata, Il teatro comico, Pamela, Le avventure della villeggiatura, Il ritorno dalla villeggiatura, Le bourru bienfaisant) quella della scena di apertura delle Massere, di qualche scena della Buona moglie (forse complessivamente migliore della Putta onorata), della Famiglia dell’antiquario, di Una delle ultime sere di carnovale, e forse, come esempio di una maniera certamente inferiore, ma pur calcolabile nell’attività goldoniana, di qualche scena scelta tra le commedie in versi del periodo ’53-58.

E cosí, se lo spazio lo avesse permesso, nella scelta dei Mémoires (scelta molto felice e adatta a preparare la lettura delle commedie proprio nel giusto scarto delle parti riguardanti la riforma e le varie opere a favore di un’illuminazione dell’animo e delle esperienze valide del Goldoni) si sarebbero potute aggiungere (tanto piú che l’introduzione tanto giustamente valuta «l’amorosa conoscenza di Venezia») le pagine che descrivono l’incontro con Venezia nel ’21 e quelle del ritorno del ’34 e ’48, cosí indicative e per la simpatia goldoniana per la città piú adatta alla sua ispirazione e per il suo singolare entusiasmo per la vita socievole, per la città fatta per gli uomini e animata dagli uomini che tanto lo eccita piacevolmente quanto lo deprime la solitudine e quanto poco lo interessa la natura disabitata (e si pensi anche alle pagine in cui descrive Parigi e la sua ammirazione crescente a mano a mano che conosce meglio la città, i suoi agi, le sue offerte di soggiorno civile e socievole, e in cui anche le constatazioni piú minute e urbanistiche rivelano un intimo moto di piacere cosí legato all’animo ottimistico, civile di un uomo che gode, secondo una inclinazione del suo tempo, di una civiltà tutta mondana fatta a misura dell’uomo ed incuriosa di ogni avventura metafisica, di ogni rivolta al saldo limite della realtà mondana).

Ma proprio su questa direzione di un ritratto del Goldoni lontano da ogni sensibilità preromantica, da ogni problema troppo arduo, fondamentalmente lieto e sereno sin nella vecchiaia, lo Zampieri ha finemente tagliato e riprodotto la maggior parte delle pagine piú incantevoli dei Mémoires.

Completa il volume un’appendice di brani di commedie settecentesche che la introduzione dichiara giustamente non scelte in funzione del Goldoni, ma come «documentazione del gusto, delle idee, delle poetiche dominanti fra l’età dell’Arcadia e l’occupazione francese» anche se poi la stessa introduzione giustamente rileva come quella presenza di tentativi e parziali realizzazioni del primo Settecento serva a togliere alla figura del Goldoni il carattere di un’apparizione miracolosa, mentre il paragone reciproco fra quelle prime commedie e l’opera goldoniana illumina per analogia e contrasto la natura «esclusivamente letteraria e cerebrale» delle prime e la storicità e concretezza della seconda. Certo la brevità del discorso impedisce allo Zampieri di meglio distinguere e valutare la diversa importanza dei commediografi pregoldoniani nelle loro diverse offerte di tecnica (non tutte cosí cerebrali e prive di ogni validità teatrale anche se certo mancanti del pieno contatto goldoniano con il teatro), nel loro diverso e progressivo contatto con la società, nella diversa presenza di istinto comico. Ma poi piú preciso discorso viene svolto nelle introduzioni ai singoli commediografi qui rappresentati e che sono per il periodo pregoldoniano Gigli, Fagiuoli, Nelli e Maffei, e, per il periodo contemporaneo e successivo al Goldoni, Albergati-Capacelli e Sografi.

Naturalmente è in questa sezione che si poteva desiderare una certa maggiore larghezza di scelta data la rarità dei testi e la difficoltà di una piú sicura ricostruzione dell’opera e delle personalità di scrittori per i quali spesso si è rimasti alle vecchie monografie ottocentesche, o alla esposizione accurata, ma a non molto soddisfacente da un punto di visto critico, del Sanesi, o agli accenni irrequieti e rapidi dell’Apollonio. E sarebbe stato in tal caso desiderabile (sempreché le esigenze di spazio lo avessero permesso!) accompagnare l’antologia con documenti di poetica sia degli stessi scrittori là dove essi ne offrissero (come nel caso del Nelli e del Maffei) sia dei «riformatori» di Arcadia e in particolare del Muratori, che meglio avrebbero chiarito il significato storico-letterario di questa produzione nella sua distinzione dalla commedia dell’arte e di tentativi piú schiettamente pedanteschi tipo la Senese del Lazzarini e simili.

Quanto alla scelta si sarebbe potuto ricavare, fra l’altro, qualche scena di forte sapore realistico-grottesco dal Gorgoleo del Gigli e per la Suocera e la nuora del Nelli si sarebbe potuta riportare la scena finale che cosí bene, come quella del pranzo, caratterizza la capacità del Nelli di incontro e accordo di voci, al di là del dialogo di botta e risposta in cui rimane praticamente chiuso il Fagiuoli, il suo gusto della scena e del taglio elegante del quadro nei pochi casi in cui il commediografo senese riesce a reagire al pericolo del rallentamento e della progressiva opacità dei suoi modesti, ma interessanti moduli costruttivi.

Ma lo stesso Zampieri nell’introduzione esprime il proprio rincrescimento «di aver dovuto sacrificare opere o brani dai quali risultano, se non cose artisticamente rilevanti, almeno particolari interessanti il costume e le idee del secolo» (ma, secondo me, anche su piano artistico motivi efficaci di comicità e di estro come nel caso del Gigli e comunque documenti di tecnica e di linguaggio) e, una volta accettati quei limiti pratici, riconosceremo che la fatica del curatore è stata anche in questa parte piena di equilibrio, di finezza e di utili stimoli ad uno studio molto augurabile di questo aspetto della nostra letteratura settecentesca.

«La Rassegna della letteratura italiana», a. 58°, serie VII, n. 4, ottobre-dicembre 1954

Manlio Dazzi, Le lettere di Carlo Goldoni, «Società», XI (1955), 3, pp. 480-487.

Prendendo spunto dall’ultimo volume XXXIX, e II delle Lettere, dell’edizione del Municipio di Venezia, curato da Giuseppe Ortolani, il Dazzi sottopone l’epistolario goldoniano ad una rapida indagine condotta in forma di osservazioni e di rilievi vari anche se saldati dalla constatazione generale del valore che quell’epistolario (pur cosí gracile e inorganico nelle duecento lettere che lo compongono e rappresentano il «resto di un gran naufragio») ha come uno «dei documenti piú schietti della personalità del Goldoni». Notata la natura semplice e poco «inamidata» di questa prosa epistolare in cui il Goldoni continua una «tradizione antiretorica obiettiva e sobria» (ed egli stesso si compiaceva del fatto che lo stile epistolare fosse dagl’italiani «trattato con non minore felicità dei francesi»), il Dazzi rileva gli spunti che posson trarsi dalla lettura delle lettere in rapporto all’attenzione dell’uomo di teatro «al gran libro del mondo» – osservazioni sulla vita e sull’indole degli attori, sul materiale comico offerto in Roma da preti e frati, sui caratteri degli abitanti delle diverse città italiane e sui parigini (e le lettere da Parigi paiono al Dazzi «le piú interessanti sia per il travaglio del Goldoni, condotto a quelle strette e rinunce e ardimenti, sia per la storia del teatro francese») –, per insistere poi sul contributo che può venire dalla lettura dell’Epistolario «alla conoscenza della costituzione morale del Goldoni». E qui egli mette in luce, attraverso le lettere, rapporti del Goldoni rappresentante di Genova presso la Signoria di Venezia, un «certo appassionato impegno politico» o, meglio, «una passioncella» che sfocerebbe nei Mémoires nella nota sulla liberazione dell’America e nella stessa dedica dell’autobiografia al re di Francia dove si parla delle promesse da questo fatte «sotto gli occhi dell’universo intero» per «il sollievo del suo popolo». In questa direzione il Dazzi nota gli «umor» del Goldoni verso la Corte, l’amicizia con Voltaire e con molti che saranno poi esponenti della Gironda e con quel John Wilkes esule in Francia per essersi ribellato a Giorgio III e per la sua campagna in favore della libertà di stampa; mentre, esitando a dar pieno valore indicativo alla finale professione di lealtà di cittadino francese nella supplica del ’92 alla Convenzione, ricorda ancora come il Goldoni si rallegrasse della presa della Bastiglia e come, fra i suoi nuovi amici francesi, un ministro testimoniasse «di averlo visto esprimere con calore il dispiacere di non poter gettare nel fuoco la patente con cui Luigi XV gli assegnava la pensione».

In realtà, se l’opera di Goldoni poté essere significativamente giudicata da quello stesso ministero come appartenente «aux temps voisins de ceux de la Liberté» e se accettabile è, in una generale interpretazione del Goldoni, l’accentuazione del suo istintivo amore per la libertà, della sua fiducia illuministica nel potere liberatore della ragione e del buon senso (e certo nei Mémoires e nel soggiorno francese si precisarono meglio in lui motivi illuministici di satira della superstizione e preoccupazioni umanitarie), nei precisi confronti delle Lettere il rilievo del Dazzi appare piuttosto sforzato e a molte delle sue osservazioni e citazioni, del resto assai caute, se ne potrebbero opporre altre di sapore assai diverso e conducenti ad una immagine ancor piú equilibrata e piú storica della posizione esplicita e del sentimento del poeta comico.

E mi sembra che le Lettere siano poi suscettibili di un’altra indagine utile per «la conoscenza della costituzione morale del Goldoni», della sua natura vitale e ottimistica, della sua profonda simpatia per la vita degli uomini, che nel saggio del Dazzi non è stata affrontata. E si pensi a certi tipici movimenti dell’animo del Goldoni di fronte alla morte, che egli giudica con la serenità di chi la considera con un certo distacco e da cui è riportato con maggiore intensità alla vita che tanto seriamente lo interessa e lo occupa: come si può vedere, ad es., nella lettera del 28 marzo 1763 al Paradisi in cui dà l’annuncio della morte di un comune amico: «Mi dispiace doverle dare la cattiva nuova che ha inteso, ma ella mi ha comandato ed io ho obbedito. Un buon filosofo dà e riceve con indifferenza le notizie dei morti, sicuro di dover arrivare alla stessa fine. Parliamo ora dei vivi ecc. ecc.». O si pensi agli elogi della sincerità, dell’onore, dei valori che il Goldoni sentiva con schietta serietà come fondamento di quella vita civile e socievole che è l’oggetto piú costante della sua attenzione e del suo interesse.

«La Rassegna della letteratura italiana», a. 59°, serie VII, n. 3-4, luglio-dicembre 1955

Antonio Vaccari, La medicina e i medici nelle commedie di Carlo Goldoni, «Atti e Memorie dell’Accademia di Scienze, Lettere ed Arti di Modena», 1955, serie V, vol. XIII, pp. 31-48.

Excursus «medico» sull’avversione del Goldoni per la medicina, al cui esercizio il padre intendeva avviarlo, sulla sua salute e i suoi «vapori» ipocondriaci (modernamente diagnosticati come esaurimento nervoso a causa della sua impressionabilità e suggestionabilità). Questa esperienza personale di forme di neurastenia, e la loro conoscenza tecnica attraverso la professione paterna, avrebbero permesso al Goldoni di rendere artisticamente i caratteri di quei fenomeni morbosi nelle commedie Il medico olandese, Il vecchio bizzarro, Il Torquato Tasso. Altre commedie vengono poi utilizzate per una rapida ricerca di giudizi goldoniani sulla medicina e sugli speziali e i loro rimedi.

«La Rassegna della letteratura italiana», a. 60°, serie VII, n. 1, gennaio-marzo 1956

Carlo Goldoni, Gl’innamorati, a cura di Giuseppe Italo Lopriore, D’Anna, Firenze, 1955, pp. 127.

L’introduzione e il commento del Lopriore puntano sostanzialmente su di una valutazione giustamente positiva della commedia del ’59 come opera unitaria e poetica, fondata sul motivo fondamentale di un incontro tra follia e saggezza e sul comporsi di due toni (quello «burrascoso» degli innamorati e quello «festoso e gaio» della figura di Fabrizio) con un alleggerimento del primo da parte del secondo: motivo e toni sempre unitari, ché mentre nella formula della «variopinta follia» rientrano insieme, a lor modo, i tre veri protagonisti (i due innamorati e Fabrizio), anche in Fabrizio si ritrova (in verità, con una forzatura poco accettabile) «quella coesistenza di realtà e sogno, di follia e di assennatezza, di irragionevolezza e di buon senso che è appunto il pernio psicologico su cui gira tutta la vicenda di questi Innamorati». Commedia dunque unitaria e, d’altra parte, mirabilmente graduata nel suo sviluppo, nei suoi personaggi, nel suo linguaggio, anche se con qualche pericolo, pensa il Lopriore, sia di cadute in forme lazzesche di commedia dell’arte, sia, e piú, di sconfinamento in forme di declamazione sentimentale poco congeniale all’ispirazione goldoniana, alla sua medietas, alla sua «Musa gioconda e maliziosa», e pure non del tutto priva di venature «accorate» e malinconiche. Certo, pensando a certe interpretazioni (come quella del Rho) che accentuarono indebitamente l’aspetto passionale della commedia, lo scatenamento, in Eugenia, preromantico e magari addirittura “sturmundranghiano” delle passioni, lo sforzo del Lopriore di cogliere il vero tono goldoniano, misurato, sorridente, fra simpatia e distacco, appare ben giustificato; ma pure mi sembra che, nell’attuazione concreta di tale giusta esigenza, l’interpretazione del Lopriore possa poi correre il rischio di ridurre eccessivamente la complessa realtà poetica del tema amoroso, che ben vive centralmente in questa commedia (e che è anche, nella sua schiettezza e nella sua finissima singolarità, una vera novità nella commedia settecentesca: si pensi all’impaccio dei cosiddetti precursori del Goldoni quando si trovano a dover dare vita a questo tema) e che particolarmente la si deprima proprio in Eugenia, troppo ricostruita dal Lopriore in una vita di «orgoglio» e di «puntiglio», che sono sí componenti di quella figura, ma pur si collegano ad una piú profonda e centrale «inquietudine» di amore trepido e sospettoso, con possibilità sincere di femminile abbandono, di tenerezza, cosí evidenti in alcune scene della commedia. E si pensi proprio alla scena finale dell’atto II che al Lopriore (coerentemente del resto a tutta la sua interpretazione) appare poco persuasiva, impacciata, declamata; e che invece mi sembra non solo fondamentale per la comprensione di tutta la commedia e di Eugenia (con l’esplicita dichiarazione delle sue «inquietudini partorite da amore»), ma veramente realizzata nella parlata di Eugenia, nell’incantevole gesto di Fulgenzio che si inginocchia ai piedi dell’amata, nel mutuo silenzioso contemplarsi estatico dei due innamorati. Con il risultato vivacissimo, nel successivo arrivo improvviso di Fabrizio e Clorinda, della ripresa, dopo la pausa di silenzio e di estasi, dell’azione della commedia, fra la gelosia rinnovata di Eugenia, lo stupore balordo di Fabrizio, la compassione comprensiva di Clorinda, i «rispetti umani» di Fulgenzio: un intreccio delicato e sottilmente comico, e una ripresa agilissima di quella trama nitida e sinuosa della tragicommedia amorosa che in altre mani sarebbe decaduta in una serie di monotone ripetizioni di situazioni troppo simili.

Da tal punto di vista si potrebbero rilevare, in questo commento ricco e impegnativo, altri punti meno accettabili ed anche, a volte, un certo appesantimento della eccezionale finezza psicologica e poetica del testo.

E nella richiesta di una completa valorizzazione di questa commedia, cosí riuscita e cosí importante nello svolgimento dell’arte goldoniana, si potrebbe anche desiderare una maggiore considerazione (accanto alla precisazione dell’occasione, del momento romano in cui nacque, ben fatta dal Lopriore all’inizio dell’introduzione) della sua posizione fondamentale come chiusura e utilizzazione superiore dell’attività goldoniana del periodo ’53-58, in cui il Goldoni, pur nella deviazione della gara con il Chiari, venne compiendo un importantissimo esercizio di tecnica e di linguaggio, su temi galanti, sentimentali, raffinati, e provò, in forme meno ispirate, moduli di scena, di espressione, piú complessi e sottili, che tanto servirono al poeta del successivo grande periodo veneziano, al quale (e si pensi soprattutto alla mirabile perfezione della Casa nova) gli Innamorati offrirono l’indubbio appoggio di una nuova compiuta esperienza di approfondimento psicologico, di armonia compositiva, di piú intensa fusione tecnico-poetica.

Ma indubbiamente, anche dal punto di vista di una considerazione della eccellenza artistica degli Innamorati, il saggio e il commento del Lopriore, che tanti spunti felici offrono per la definizione dei vari personaggi, non mancano di aggiustate, indicative osservazioni: ad es., il rilievo della utilità necessaria di scene apparentemente secondarie e laterali, come la decima dell’atto II (che rallenta, con il dialogo fra Succianespole e Fabrizio, la tensione della scena precedente e gradua, nel ritmo elastico e sinuoso di tutta l’opera, la preparazione alla scena di scontro e conciliazione dei due protagonisti), o, nella attenzione a valori di scena e di linguaggio, la giusta sottolineatura della felice conclusione dell’atto I, con una battuta che riprende un modulo di arietta metastasiana (e quanto da Metastasio a suo modo imparò questo Goldoni!); e in generale essi ben contribuiscono alla lettura e alla valorizzazione di una commedia che cosí esemplarmente documenta la realtà di un Goldoni poeta, la complessità della sua poesia, non riducibile ad una semplice espressione letteraria e tecnica né ad un documento alto di polemica sociale, come io ebbi ad osservare, proprio con l’esempio degli Innamorati, a proposito del saggio del Givegelov[1] in questa rassegna settecentesca (n. 1 del 1954).

Nicola Mangini, Fortuna del Goldoni sulle scene italiane dell’Ottocento, «Drammaturgia», 8 (1956), pp. 49-59.

Apprezzabile studio della fortuna teatrale del Goldoni nell’Ottocento italiano, che avrebbe potuto però utilmente tenere meglio presenti anche gli essenziali riferimenti alla vera e propria storia della critica goldoniana nell’Ottocento. Constatato anzitutto il declino del successo goldoniano dopo la morte del poeta (anche per il prevalere, nella fine del Settecento, del gusto dello spettacolare, a cui però il Mangini sembra dar troppo il valore di annuncio delle nuove esigenze romantiche, mentre, specie nel teatro comico, è anche spesso riflesso di forme già vive precedentemente: si pensi all’opera del Liveri e alla commedia italo-spagnola) e affermata addirittura «una quasi totale eclissi» del teatro goldoniano nei primi decenni del secolo, lo studio precisa una prima ripresa di recite goldoniane con l’affermarsi delle compagnie stabili, verso il 1830: ripresa però assai limitata quanto ad effettiva comprensione del valore del teatro goldoniano, sia per la scelta indicativa delle commedie (non quelle veneziane) sia per le ragioni esterne che la motivavano, come la innocenza politica e morale dell’opera goldoniana che escludeva ogni pericolo di interventi da parte delle censure. La stessa tenace fedeltà a Goldoni del Bon e di Luigi Duse (il primo aveva addirittura dato il nome del grande commediografo alla propria compagnia) non trovò, del resto, corrispondenza nel pubblico, come poi (fra il ’50 e il ’70, quando, secondo il Mangini, «la fortuna del Goldoni in Italia toccò forse il punto piú basso della sua parabola, posposto a mestieranti d’ogni paese e umiliato anche nel repertorio delle compagnie piú note») i gusti del pubblico e quelli degli stessi attori condussero anche a vere e proprie deformazioni (persino nei titoli) delle commedie del Goldoni recitate (e quasi sempre si tratta delle commedie sue piú patetiche o che tali potevano apparire), con forzature di personaggi in chiave romantica e con spostamenti del genuino rilievo e rapporto dei personaggi a seconda delle preferenze degli attori che li interpretavano. Una svolta decisiva ha luogo solo nel 1870 con la formazione della prima compagnia veneziana di Angelo Moro Lin e poi con l’attività di due grandi interpreti goldoniani, Ferruccio Benini ed Emilio Zago: specie con quella piú attenta e fedele del secondo, piú libero del Benini da una certa contaminazione Goldoni-Gallina che appare del resto molto significativa nel gusto di piccolo realismo regionale e patetico entro cui ha luogo la ripresa goldoniana e su cui il Mangini avrebbe potuto ancor di piú insistere per meglio caratterizzare questa utile storia della fortuna teatrale goldoniana in termini piú generali di gusto teatrale e letterario ottocentesco.

«La Rassegna della letteratura italiana», a. 60°, serie VII, n. 2, aprile-giugno 1956

Carlo Goldoni, Opere, a cura di Giuseppe Ortolani, vol. XIV, Milano, Mondadori, 1956, pp. 1029.

Con questo volume si conclude la bella e utilissima edizione di tutto Goldoni iniziata nel 1935 da Giuseppe Ortolani. Torneremo a parte sull’epistolario goldoniano qui raccolto (le 194 lettere private e le lettere inviate al governo di Genova dal Goldoni quale console di quella repubblica a Venezia, negli anni 1741-43), essenziale documento, insieme ai Mémoires, per una ricostruzione della biografia e della vita interiore del poeta veneziano; ma sin d’ora segnaliamo l’importanza del volume (che contiene, oltre alle lettere, suppliche, prefazioni, manifesti e, in appendice, la scrittura in difesa dei fratelli Cini – difesa dell’avvocato Goldoni a Pisa – e la traduzione libera dell’Istoria di miss Jenny della Riccoboni, eseguita nel 1789) e la ricchezza delle note dell’Ortolani, specie per quanto riguarda le vicende storiche accennate nelle lettere al governo genovese. Chiude il volume un indice generale dei nomi, delle opere e delle cose notevoli di tutti i quattordici tomi dell’edizione, a cura di Enrica Bianchetti.

«La Rassegna della letteratura italiana», a. 61°, serie VII, n. 1, gennaio-marzo 1957

Mario Apollonio, Incontro a Carlo Goldoni, «Drammaturgia», IV (1957), 3, pp. 235-245.

È il testo di un discorso commemorativo tenuto il 24 febbraio a Venezia, a Palazzo Ducale, e risente come tale di ragioni celebrative: donde le discutibili variazioni sul significato del Goldoni e della sua serenità comica nel nostro «difficile» tempo e sul suo magistero di concretezza (attinta nella nostra civiltà «dal Discorso della Montagna, dal realismo delle Parabole: proprio quando per la salvezza eterna e di ogni giorno l’Italia rinunciò alla solitudine tremenda dell’impero del mondo»), che lo inserirebbe in una particolare tradizione cristiana-italiana («poeta d’un costume e di una città cristiana» fra l’Ariosto, «poeta cristiano – come lo dice il curato del Don Quijote» – e il poeta dei tempi cristiani Alessandro Manzoni).

Giovanni Da Pozzo, recensione a Tutte le opere di Carlo Goldoni, a cura di Giuseppe Ortolani, vol. XIV: Lettere, Suppliche, Prefazioni e manifesti, Difesa dei fratelli Cini, Istoria di Miss Jenny, Milano, 1957. «Lettere Italiane», IX (1957), 1, pp. 105-110.

Malgrado alcuni dubbi circa la completezza della raccolta e il criterio seguito nel pubblicarla (si indicano l’assenza di alcune lettere già pubblicate dall’Urbani e dal Masi – e del resto quasi tutte presenti nell’edizione del Comune di Venezia, curata in massima parte dall’Ortolani –, qualche raccorciamento rispetto all’edizione Masi, qualche datazione cambiata senza spiegazione rispetto alle edizioni precedenti: e soprattutto ci si duole che in questa edizione mondadoriana manchino appunto indicazioni complete in merito al criterio seguito e alle fonti consultate) e malgrado alcuni appunti circa le note (come la mancanza di una notizia sulla versione del romanzo Miss Jenny e i discutibili interventi sentimentali del curatore), il recensore riconosce l’importanza di quest’ultimo volume dell’edizione goldoniana Mondadori e svolge poi alcune osservazioni personali sull’epistolario del grande commediografo, sia come indispensabile base preliminare – per il quadro completo degli scritti del Goldoni ai suoi editori – di uno studio sulle diverse redazioni delle commedie a cui il recensore annuncia di attendere attualmente, sia come documento del tono e dello stile del Goldoni epistolografo in rapporto con quello dei Mémoires e delle Commedie, rapporto risolto nella mancanza di un grande stacco di atteggiamento o di stile fra le lettere e le commedie e i Mémoires nei quali però si ammette una migliore articolazione della confessione autobiografica, una maggiore felicità della memoria nel colorire figure e fatti. Da notare l’accenno ad un possibile studio della traduzione della Miss Jenny «per mettere in rilievo gli esiti linguistici ai quali giunge il Goldoni e i punti di esso (romanzo) che maggiormente devono aver colpito la sensibilità del commediografo con la loro insistente volontà di penetrazione psicologica» (lo studio psicologico attrae il Goldoni «e è al tempo stesso una delle correnti principali dalle quali è attraversata la nostra letteratura alla fine del Settecento, nel momento cioè in cui essa assorbe i motivi precorritori della sensibilità romantica»). Tutte cose da veder da vicino, tenendo però conto dell’impegno relativo di questa opera di traduzione degli ultimi anni del Goldoni (e piú fatta per guadagno che per forte interesse) e della difficoltà di considerarla davvero «un indice di una certa modificazione del gusto» del commediografo.

Luigi Poma, Una lettera inedita del Goldoni. Estratto da «Studi letterari» per il 250° anniversario della nascita di Carlo Goldoni, a cura del Collegio Ghislieri, Pavia, 1951, pp. 7.

Pubblica una lettera inedita che il Goldoni inviò il 7 marzo 1764 da Parigi a ignoto destinatario: probabilmente il Voltaire, come l’editore propone con ragioni abbastanza persuasive. La lettera dà notizia di una edizione delle opere goldoniane allora in corso di pubblicazione (che il Poma pensa possa essere l’edizione Pasquali Delli componimenti diversi di Carlo Goldoni, il cui primo volume era uscito al principio del ’64, anche se il testo – «il me faut encore six mois pour achever l’impression de mes ouvrages à Paris» – par riferirsi ad una edizione parigina: ma quale?), ed esprime la speranza del Goldoni di poter render visita al destinatario, a cui intanto presenta il latore della missiva, il belga de Vaes che andava in Italia con la moglie e la cognata (e che sarebbe potuto passare per Ferney o per le Délices).

«La Rassegna della letteratura italiana», a. 61°, serie VII, n. 2, aprile-giugno 1957

Gianfranco Folena, Il linguaggio del Goldoni, «Paragone», 1957, 94, pp. 4-28.

Questo importante studio, folto di precisi finissimi rilievi e sorretto da una centrale simpatia critica per la vitalità poetica del grande commediografo, appoggia le sue linee di sviluppo della storia del linguaggio goldoniano su di una fondamentale disposizione del poeta al dialogo e all’espressione comica in una zona pregrammaticale e preteatrale e sul passaggio dalle forme dell’improvviso sperimentato nell’eredità della commedia dell’arte a quelle di un concertato che culmina nelle grandi commedie veneziane della maturità. Sviluppo di una storia che non sempre coincide con quello rigidamente cronologico anche per la mancanza in Goldoni della dimensione della «letteratura», della lingua letteraria sostituita per lui da quella teatrale in cui egli traduce l’esperienza vasta e continua del «mondo», del «conversare», del rapporto psicologico e sociale in cui sempre sono immersi l’autore e i suoi personaggi. Quali gli ideali linguistici del Goldoni? Una lingua viva, non normativa, naturale sia nel dialetto vero e proprio sia nell’italiano. Donde la scarsa utilità della ricerca dell’elaborazione formale attraverso redazioni diverse e traduzioni in dialetto, in lingua, in francese. Partito dall’improvviso, nella sua piú vasta accezione teatrale e non teatrale, il Goldoni sarebbe stato preso dalla volontà di sottrarre i valori impliciti nell’improvvisazione linguistica alla loro contingenza, rendendoli espliciti nella parola scritta e precisata dall’autore. Sicché la riforma del Goldoni appare riforma dall’interno dell’esperienza teatrale risolvendo l’improvviso nel quotidiano, nel familiare. Passaggio complesso il cui primo grado può individuarsi in quel documento essenziale dei rapporti Goldoni-commedia dell’arte che è Il servitore di due padroni, volto soprattutto a soluzioni «improvvise», ma già mirante a ricercare nella ricchezza di piani linguistici molteplici una misura comune, un perno centrale costituito dal veneziano. Donde poi le creazioni dialettiche dei Pettegolezzi delle donne, della Putta onorata e della Buona moglie, e le incertezze rilevabili nel Bugiardo, a cui può contrapporsi, per la realizzazione linguistica del senso atmosferico e coloristico “concertato”, il Campiello, la cui realtà piú vera è il dialogo non piú solo in funzione scenica «impressiva», ma anche in funzione «espressiva» e narrativa coerente ad un mondo nuovo che urge dentro il teatro e lo trasforma, e a quel sentimento intersociale e soprasociale che permette al Goldoni di godere una visione globale della gioia della vita, della vita di tutti i giorni e non solo dei giorni di festa o dei giorni di lavoro (secondo l’affermazione del Givelegov). Qui il linguaggio diviene un condensato o quintessenza di tradizione veneziana e il mezzo espressivo di un’onda di letizia divina, di istintiva e insieme ragionevole felicità, una specie di eternizzazione poetica dell’effimero e del fluire della realtà umana.

Limpido e sottile disegno che incarna in precise osservazioni linguistiche e stilistiche una interpretazione della poesia goldoniana non sociologicamente sforzata né ridotta a «teatro puro» che ci appare ben accordata originalmente con le piú centrali offerte ed esigenze della critica goldoniana attuale.

Lucien Leluc, Carlo Goldoni à Paris, «La table ronde», 121 (1958), pp. 116-123.

Breve esposizione delle vicende biografiche e del lavoro teatrale del Goldoni a Parigi, sulla base della comunicazione tenuta dal compianto Henri Bédarida, Goldoni e la Francia, al congresso goldoniano di Venezia dell’autunno scorso.

«La Rassegna della letteratura italiana», a. 62°, serie VII, n. 1, gennaio-aprile 1958

Mario Marcazzan, Illuminismo e tradizione in Goldoni, «Humanitas», XIII (1958), 4, pp. 282-299.

Indicati i limiti della cultura goldoniana e l’impossibilità di inserire il Goldoni nell’impegno piú attivo e consapevole della cultura illuministica (specie nel senso politico-sociale a proposito del quale il Marcazzan si riferisce alle mie riserve sulla nota tesi del Givelegov), il saggio propone di avvicinare piuttosto il Goldoni ad un illuminismo popolare, ad una forma di personale fruizione, «in ragione d’arte e di vita piuttosto che di esperienza culturale», di atteggiamenti ed echi della cultura illuministica (naturalismo, ottimismo, razionalismo) fusi con una radicale saggezza, frutto di istinto e di esperienza di vita e fatti vivere nella sua arte teatrale tesa soprattutto a rappresentare l’animo umano, a conoscere e a far riconoscere ai suoi contemporanei l’uomo nella sua comune sostanza e dignità viva pur nelle sue concrete distinzioni storiche e sociali. Conoscenza dell’uomo e della sua dignità che anticiperebbe Manzoni e unirebbe in equilibrata fusione echi delle posizioni illuministiche e una istintiva «eredità della civiltà rinascimentale e dei suoi valori».

Ed è soprattutto su questa eredità rinascimentale che il discorso mi sembra farsi piú vago, mentre per quel che riguarda le suggestioni illuministiche penso che, una volta ben chiarita una distinzione della posizione goldoniana rispetto al vero impegno illuministico, nel senso della celebre definizione kantiana non attribuibile al Goldoni, si sarebbe potuto, specie sulla base delle lettere e dei Mémoires, portare una piú larga e interessante documentazione della Weltanschauung goldoniana, della sua fiducia seria e lieta nella ragione e nella vita, del suo interesse per la vita degli uomini nella loro città e società, della sua antipatia per la filosofia scolastica e per ogni forma di «superstizione» e misticismo (come feci osservare con piú ampio discorso nel mio intervento in proposito nel Convegno goldoniano di Venezia).

Gianfranco Folena, L’esperienza linguistica di Carlo Goldoni, «Lettere Italiane», X (1958), I, pp. 21-54.

È il testo della importante relazione tenuta dal Folena al Convegno goldoniano di Venezia, ora corredata di un complesso di note che in gran parte la integrano (la arricchiscono con ulteriori precisazioni e con alcuni veri e propri abbozzi di trattazione e discussione di temi di storia della lingua che superano lo stesso motivo goldoniano: come la nota prima sul tema della impopolarità o non popolarità delle lingua letteraria nella nostra storia linguistica.

La relazione, la cui importanza è anche relativa alla novità e all’impegno di trattazione di un tema singolarmente trascurato (e spesso rimasto chiuso nel vicolo cieco del pregiudizio puristico variamente rinverdito, a parte spunti importanti del Devoto, del Fubini e del Bacchelli), si articola in due parti essenziali. Nella prima, rilevato come il problema linguistico fondamentale del Goldoni sia un problema di comunicazione di una lingua spontanea di dialogo, il Folena indica come a tale problema corrisponda il porsi del Goldoni nel punto di incontro di una secolare tradizione dialettale veneziana con la comune tradizione italiana ed europea e con il concepire originalmente il dialetto come strumento espressivo, nella sua piena autonomia di lingua parlata, di vero linguaggio. Donde la sua mancanza di ogni complesso di inferiorità nei riguardi della tradizione letteraria arcaicizzante e cruscante: e qui suggerirei un’ulteriore documentazione ex abundantia dal volume dei componimenti poetici in cui, come mostrai in una recensione nel n. 2, 1956, di questa rivista, il Goldoni chiarisce con tranquilla distinzione e ironica polemica il suo distacco insieme da Crusca e «poesia» alta, letteraria, pindaresca e classicheggiante. Sicché il Goldoni, che insieme riprendeva (tema svolto dal Folena ampiamente nell’articolo Il linguaggio di Goldoni: dall’improvviso al concertato in «Paragone», 94, schedato nel n. 1 di quest’anno) con nuova originale concretezza e storica modernità la vitalità teatrale dell’«improvviso», crea una nuova tradizione di lingua colloquiale e teatrale (con possibilità di svolgimenti nel linguaggio narrativo ottocentesco e contemporaneo, «nel genere linguistico nuovo del dialogo e del narrativo»: dialogo vero e proprio, e offerta delle didascalie goldoniane) e vive concretamente nel suo linguaggio la contemporanea dimensione veneziana e settecentesca nella sua poetica traduzione di una vitalità del presente, dell’attuale e del socievole. Su tale prospettiva cadono le vecchie accuse alle deficienze costituzionali dell’«italiano» del Goldoni anch’esso internamente giustificato (entro un rapporto non di opposizione, ma di articolazione) nel suo valore espressivo e teatrale e nel suo significato importante, nella storia della nostra lingua, di nuova tradizione di lingua media e colloquiale.

Nella seconda parte del saggio si passa cosí alla precisa articolazione della esperienza linguistica goldoniana, dialettale, italiana, francese, per «metterne in rilievo con le differenze, che non sono di livello, ma di estensione e di interna ricchezza, le strette connessioni, e la vita che vi circola, come in un’ariosa casa veneziana del ’700, con la riva sul canale, il mezzà e il piano nobile». L’analisi del dialetto (che di tutto l’edificio goldoniano è fondamento) mostra, nella sua essenziale tendenza antinormativa e pregrammaticale, l’estrema ricchezza espressiva del nuovo parlato teatrale (contro una stilizzazione stabile del dialetto secondo categorie sociali e situazioni psicologiche fisse) in cui il Goldoni utilizzava artisticamente la natura dialogante del veneziano, la sua logicità intuitiva assai piú che razionale, la sua elementare struttura ipotattica con povertà di nessi subordinativi (e dunque forma dialogante piú aperta e socievole di quella piú chiusa, aforistica, monologante del fiorentino); caratteri sintattici che trapassano dal dialetto all’italiano, mentre passa anche nel dialetto la tendenza a un lessico ricco e neologistico, che nell’italiano piú facilmente rifletteva i rapporti mondani e le convenienze sociali. «Va eliminato dunque il sospetto che l’italiano di Goldoni sia una specie di sovrastruttura e il suo dialetto una specie di struttura, segregata dalla storia»: fra i due mezzi espressivi circola sostanzialmente (anche se con maggiori risultati poetici nel dialetto) la stessa vita poetica e vivono le stesse tendenze (fra cui una capacità figurativa documentabile nelle vive metafore di alcune commedie italiane) e il fondamentale senso goldoniano del valore documentario della parola entro una visione ben settecentesca del contingente che regola la vita della lingua come quella dei costumi. In fine lo studio esamina il francese goldoniano, anch’esso da considerare entro una esperienza stilistica di lingua parlata e rivissuto dal Goldoni proprio nella sua essenza analitica eminentemente dialogica secondo una tendenza centrale dell’arte goldoniana che porta ad un andamento dialogante (come ritmo e struttura dialogica) anche nelle pagine narrative: a proposito delle quali il Folena pensa di poter rivendicare una maggiore sicurezza ed efficacia di alcune pagine delle Memorie italiane (per l’edizione Pasquali) di fronte alla stesura piú uniforme e compatta, ma anche piú lenta e disarticolata dei Mémoires: punto particolare su cui si possono nutrire dubbi (e si pensi almeno all’episodio dell’incontro con il frate nella barca dopo la cacciata da Pavia).

Un ultimo breve scorcio di storia dell’esperienza artistica goldoniana riepiloga le osservazioni linguistiche nell’affermazione che i capolavori della maturità goldoniana si distinguono per la loro unità insieme linguistica e stilistica, ché «l’ascesa del dialetto come lenguazo sempre piú radicato nella realtà veneziana e nel costume de la zente e anche l’ascesa dell’Italiano come lingua di conversazione civile, umanissima seppur di registro piú ristretto, sono concomitanti alla riduzione progressiva del dialetto come caricatura e della lingua come contrappunto giocoso, alla eliminazione dei clichés dialettali e degli schemi della Commedia dell’arte, alla vittoria sul secolare plurilinguismo letterario veneziano».

Discorso molto importante per la considerazione del Goldoni nella storia della nostra lingua, ma insieme come nuovo appoggio (se non come unica necessaria introduzione) ad una interpretazione della personalità e della poesia goldoniana (caduto ogni dubbio sulla sua qualifica di «poesia» nella sua piena accezione) in una dimensione storica (non ridotta alla pura relazione sociologica), e autenticamente poetica, non risolta unilateralmente nella semplice purezza del ritmo musicale-teatrale. Ché, ciò che mi piace sottolineare, è da una parte la possibilità offerta da questo esame linguistico di rinforzare la centrale immagine di un Goldoni veneziano e settecentesco proprio nella sua nucleare tendenza dialogante e socievole e d’altra parte, e contemporaneamente, l’affermazione di una ricchezza linguistica-poetica, che pur nella concretezza della sensibilità sociale e contemporanea è ben lungi dallo schematizzarsi in un duro disegno di programma sociale e presuppone come primum la libertà della fantasia creativa, l’individuale e geniale centro della personalità poetica.

Manlio Dazzi, Carlo Goldoni e la sua poetica sociale, Torino, Einaudi, 1957, pp. 212.

Dopo una rapida delineazione dell’ambiente veneziano settecentesco, il saggio del Dazzi (in sostanziale polemica con le tesi del «candido genio» della Ortiz e della continuità arcadica nella riforma goldoniana del Fubini) afferma la fondamentale serietà della cultura del Goldoni e della sua assoluta novità rispetto all’Arcadia (anzi in netta posizione antiarcadica) come mentalità di evasione letteraria e, se pur con qualche maggior temperamento, rispetto ai tentativi di riforma teatrale del primo Settecento, nonché (di nuovo contro la Ortiz ed altri) la sua decisa rottura con la commedia dell’arte.

Della riforma goldoniana si valorizza cosí la consapevolezza e decisione solo praticamente attenuate e parzialmente deviate da alcune remore (la necessità di attuare gradualmente la rottura con la commedia dell’arte, il dover fare i conti con gli attori, la polemica con il Chiari) e si afferma la realtà di una precisa poetica qualificata come «sociale» non per un preciso impegno rivoluzionario, per una programmatica volontà di rottura dei rapporti sociali esistenti, ma per un effettivo stimolo dominante di una osservazione critica della società da un punto di vista borghese con apertura di crescente simpatia per il popolo. Osservazione critica nata da un concreto «vivere in borghese», da una fervida partecipazione ai nuovi valori della classe intellettuale borghese veneziana e italiana (non senza l’incentivo di un «pallino politico» che piú vivo in gioventú si rivelerebbe poi piú liberamente negli ultimi anni francesi al contatto di significative amicizie e degli avvenimenti rivoluzionari). Di tale osservazione critica (artisticamente operante non in forme di copia naturalistica né di arte esplicitamente polemica, ma di poetica tipizzazione realistica) il Dazzi esemplifica poi, in capitoli di esame e di documentazione dalle commedie (ché in queste e non in documenti laterali, come lettere, prefazioni ecc., egli cerca la viva riprova della sua tesi), la particolare consistenza e articolazione studiando l’atteggiamento del Goldoni nei confronti della nobiltà, della borghesia, del popolo (con un ampio rilievo a vari aspetti e suddivisioni di quelle classi, vivi nella rappresentazione comica goldoniana: cicisbeismo, esterofilia, aspetti feudali; nobili decaduti, nobili borghesizzati; ideali borghesi, donne borghesi; servitori, popolani, contadini ecc.), e concludendo con la ribadita affermazione di un Goldoni «partecipe» – non in forme di violenta battaglia, ma neppure di generico amore per la vita e per gli uomini – del movimento e degli ideali della società settecentesca, moralmente e criticamente consapevole delle ragioni ideali che promuovevano il moto progressivo della società del suo tempo.

Si tratta di un libro certamente vivo e ricco, di cui mal si può rendere conto in un breve riassunto che inevitabilmente fa perdere la complessità dell’esame e l’interesse di tante osservazioni particolari in cui, fra l’altro, risaltano spesso anche rilievi estetici sulle qualità dell’arte goldoniana: poesia di evocazione di una atmosfera calda di vitalità nel chiuso delle case o nell’ariosa concretezza delle vie e dei campielli veneziani, efficacia poetica della lingua parlata e poetica del Goldoni, del suo dialetto reso necessario dalla sua amorosa attenzione ad una realtà intera e precisa (le pagine ad esempio sul Campiello e sulle Baruffe, in cui, anche se non sempre con intima e forte coerenza, le stesse doti poetiche del ritmo musicale come inveramento di una poesia della vitalità e del ritmo vitale, vengono adeguatamente sottolineate e valorizzate). Ma un riassunto finisce per smussare anche le contraddizioni e le incertezze che alla lettura minuta piú facilmente risaltano e che, pensando ad alcuni precedenti scritti goldoniani del Dazzi (da me schedati altra volta), mi paiono riflettere una centrale incertezza del Dazzi, partito inizialmente da una piú decisa volontà di caratterizzare il Goldoni in una prospettiva «progressiva», piú vicina alla nota tesi marxista del Givelegov, in una piú forte accentuazione dell’impegno illuministico e prerivoluzionario del Goldoni (interesse politico, critica combattiva ecc.) e poi giunto a posizioni piú moderate, ma non interamente fuse con le posizioni di partenza. E nello stesso libro si noti almeno il contrasto fra l’enunciazione del titolo (e ai suoi riflessi in molti punti della trattazione) e le numerose correzioni che, anche in punti particolari, smussano quell’impegno di critica militante che mi pare non tutto eliminabile nella qualifica della poetica di Goldoni come poetica «sociale». Troppo spesso si ha l’impressione di una spinta rientrata (specie sui temi piú brucianti dell’egualitarismo originario, dei temi antimilitaristici, antifeudali), attenuata anche linguisticamente in qualche «scosserella» (per il Feudatario) che non pare adeguata alla precisa realtà anche solo di un critico «lucidissimo e spietato», seppure non di un combattente rivoluzionario; mentre viceversa troppo si riduce a ragioni pratiche (censura, pubblico) la prudenza e l’indecisione goldoniana (tipo finale della Pamela). Tutto ciò si dice proprio guardando alla coerenza interna del libro, rispetto al proposito del titolo e a quella che sembra essere stata la prima ragione di una interpretazione animata da una simpatia schietta, non solo letteraria, per il Goldoni.

Certo d’altra parte l’attenuazione notata rende il saggio piú accettabile come contributo ad un generale ripensamento del problema goldoniano piú storicizzato e concretato nell’arricchimento della complessa vitalità goldoniana, dell’interesse goldoniano per il dialogo e il rapporto fra gli uomini entro la ricchezza delle loro caratterizzazioni di società, comunque ben piú che non delle loro «ideologie» politiche per le quali non mi sembra che il Goldoni avesse vero interesse (come a un certo punto il Dazzi dice seguendo la spinta originaria del suo lavoro e citando il Givelegov alle pp. 200-201). Ché qui riappare a tratti la tentazione givelegoviana del Dazzi (interesse politico anche se ridotto a «pallino», avvicinamento al Parini ecc.). Né starò qui a ripetere a lungo quanto già dissi in proposito altrove: l’interesse politico del Goldoni anche nelle ultime pagine dei Mémoires è incertissimo (si ricordino le pagine compiaciute e sincere con cui descrive la sua vita a corte e la benevolenza del re nel suoi confronti). E l’avvicinamento frequente al Parini ribadisce proprio la netta distanza che separa i due poeti quanto ad impegno riformatore e a consapevolezza illuministica (e ad inserimento in una battaglia concreta che per il Parini si avvantaggia della consapevole collaborazione con un vero gruppo di intellettuali militanti e con un governo riformatore). E dal Givelegov ritorna la dubbia formula del poeta dei giorni di lavoro, tendenziosa e insufficiente a definire la poetica simpatia del Goldoni per gli uomini e la loro vita nella sua laboriosità e nei suoi abbandoni conviviali e festosi.

D’altra parte, se è innegabile la sensibilità del Goldoni alla situazione sociale dei personaggi e dei loro rapporti (con tutto ciò che arricchisce la loro concretezza e i motivi della loro comicità), la ricerca di una loro tipizzazione sociale e morale non deve escludere tutta quella ricchezza e finezza di rappresentazione psicologica in una direzione umana piú universale che in questo esame appare meno considerata (si pensi ad es. agli Innamorati, al mirabile svolgimento delle inquietudini amorose alla cui perfezione di sfumature il Goldoni giunse attraverso un intimo arricchimento della sua esperienza umana ed artistica, nata dal tema del «bisegar» nel cuore degli uomini e non da una pura attenzione critica alla società).

Da questo punto di vista mi pare sintomatica l’assenza del Momigliano nella discussione con la critica che il Dazzi istituisce nel corso del suo libro (ricorrendo ad un sistema di citazione per sigle in verità quanto mai faticoso e sconsigliabile). L’autore sente il bisogno di giustificarla allegando l’estraneità alle finalità del suo lavoro dell’esegesi momiglianesca, di carattere psicologico. Ma in realtà, a parte il fatto che le analisi del Momigliano mal possono ridursi a pura critica psicologica, quell’assenza mi par confermare invece come alla tesi del Dazzi manchi appunto l’attenzione alla complessità e ricchezza della poesia goldoniana nel suo fondo poetico piú intero e che, da tal punto di vista, qualcosa di fondamentale sfugga ad un libro che pur ambisce giustamente a dare una immagine sintetica e centrale del poeta Goldoni.

Una discussione a parte meriterebbe poi la parte iniziale in cui la reazione alla tesi «arcadica» del Fubini, pur ben accettabile contro un pericolo di eccessiva letterarizzazione del Goldoni (e di riduzione della novità della sua riforma) appare viziata da una considerazione troppo convenzionale dell’Arcadia di cui alcune fondamentali esigenze furono indubbiamente essenziali (anche se rivissute e trasformate in una nuova disposizione di poetica personale e storica) nel complesso distacco del Goldoni dalla commedia dell’arte. Non punterei comunque, a distinguere Arcadia e Goldoni, sulle figure dei contadini che, nella esperienza realistica poetica del Goldoni, mi sembrano in generale costituire la zona piú letteraria e indiretta.

Ma i dissensi e le osservazioni non tolgono che questo libro debba essere considerato come un momento importante nella discussione goldoniana contemporanea.

Franco Fido, Per una lettura storica delle commedie goldoniane, «Belfagor», XII (1957), 6, pp. 32.

Inquadrata la posizione del Goldoni, piú che in uno sviluppo teatrale-letterario, in una nuova situazione politico-sociale di metà Settecento, quando i nuovi nuclei borghesi cittadini formarono un nuovo pubblico disgustato dell’indifferenza morale e della povertà intellettuale della commedia dell’arte e chiesero un teatro ispirato ai loro ideali di natura e ragione, il saggio si volge a descrivere il rapporto fra il Goldoni e la borghesia veneziana (nel suo duplice ufficio di ispiratrice e destinataria delle sue commedie): quella borghesia di mercanti alla cui «filosofia», ai cui valori di schiettezza, moderazione, onore, laboriosità, il poeta partecipava e nei confronti della quale egli esercitava la sua satira della nobiltà e specie di quella nobiltà oziosa e povera (i barnaboti) che costituiva il peso maggiore della situazione veneziana e persino la piú seria minaccia a quell’ordine costituito che il Goldoni non voleva rompere, ma internamente riformare, col suo moderato illuminismo e ottimismo, tentando semmai di scuotere i nobili dalla loro inerzia e di riportarli alla dignità di una vita attiva, ricordando loro la funzione sociale dei loro antenati. Riducendo cosí i principi illuministici alla concreta situazione veneziana e all’ideale della «buona famiglia» in un periodo in cui, a metà secolo, il vero e proprio ideale mercantilistico tramonta, il Goldoni rifletterebbe nelle sue commedie fra ’50 e ’60 (quando i suoi mezzi artistici maturano e si precisano i suoi giudizi sulla società veneziana contemporanea) le preoccupazioni dei borghesi veneziani, la loro nuova attenzione alla campagna, i loro nuovi ideali dell’«apatista» e della vita in villa (con un riflesso anche della esperienza toscana) per giungere poi nelle ultime grandi commedie veneziane ad una sua interpretazione della crisi del regime oligarchico veneto e della caduta del vecchio costume patriarcale-mercantile con la nuova scoperta della dignità del popolo minuto e con l’ultimo ideale del cittadino di buon cuore, dotato di un senso nuovo e generoso dei rapporti sociali. Tentativo di ricostruzione dell’iter goldoniano come mosso fondamentalmente dalla sensibilità con cui il commediografo intuí il movimento della società veneziana, che il giovane studioso presenta come atto «se non altro a rifiutare l’immagine di un Goldoni indifferente e superficiale come l’altra opposta di un Goldoni pregiacobino e cosciente apostolo di rivoluzione»: ché ad un’altra rivoluzione egli invece approdò in campo letterario «contro l’evasione in Arcadia, contro l’alibi accademico e cortigianesco della letteratura metastasiana». Conclusione che riduce indubbiamente di molto il pericolo di forzatura di questa lettura sociologica (piú che storica nel pieno senso che questa parola non può non assumere quando si tratta della storia della poetica e della poesia) nella direzione di un impegno riformatore-rivoluzionario assurdo nel Goldoni. Ma anche in questo ambito piú accettabile (e indubbiamente con offerte e stimoli apprezzabili) varie sono le obbiezioni che si possono muovere al disegno presentato dal Fido. Anzitutto proprio l’eccessiva trasformazione della sensibilità goldoniana per la viva materia delle sue commedie (della quale poi fan parte precipua quella piú profonda e generale realtà umana, quel mondo degli affetti, quella mobile e aperta realtà delle inquietudini e delle gioie degli uomini in ogni loro condizione sociale da cui prende slancio il suo ritmo poetico) in una programmatica serie di impostazioni critiche, di vere e proprie «tesi» consapevolmente sostenute, ed eccessiva appare la coincidenza istituita troppo schematicamente fra un’analisi della società veneziana e lo svolgimento della poesia goldoniana. E basti ricordare in proposito l’evidente forzatura di una battuta di siora Felice «siè un poco piú civili, trattabili, umani» che nasce dal profondo ideale civile, socievole, umano del Goldoni, in una precisa lezione rivolta alla borghesia veneziana, in una sua precisa fase di crisi, per una partecipazione piú cordiale e attiva alla vita della società. Ché poi l’aderenza piú vicina alla realtà concreta e amata di Venezia non deve irrigidirsi troppo in un puro colloquio del poeta con il semplice pubblico veneziano e, piú, in una funzione di collaborazione didascalica, riformatrice cittadina. Mentre troppo si perde di vista (anche se l’impegno del saggio non ne esclude una possibile integrazione) la dimensione teatrale solo inizialmente ricordata per una risoluzione solo politico-sociale della crisi della commedia dell’arte. Crisi, fra l’altro, iniziata assai prima delle nuove condizioni politiche di metà Settecento entro quella civiltà razionalistica-arcadica di primo Settecento che pur rappresentò un primo, graduato inizio (anche se con chiari pericoli di nuove evasioni letterarie e con la sua insufficienza di profondità) di nuove preoccupazioni civili e socievoli, collaborò alla formazione di nuovi valori di buon senso, natura e ragione che già portavano a reagire alla commedia dell’arte. E se è errato ridurre Goldoni ad un semplice prosecutore della riforma arcadica, errato è pure recidere ogni rapporto suo con quella e con i tentativi di riforma del teatro di primo Settecento, cosí come, se è vero che la poesia goldoniana è ben diversa e «moderna» da quella metastasiana e giunge a postulare un ben diverso senso della concretezza realistica e della modernità del linguaggio poetico, non deve dimenticarsi, quando si guardi piú attentamente al Goldoni poeta dei sottili moti dell’animo e del ritmo patetico, una lezione metastasiana nella sua formazione, non spregevole né inutile (non si dimentichi l’avvertimento del Momigliano su Goldoni metastasiano).

Piero Camporesi, Goldoni, Venezia e i romantici, «Convivium», n.s., II (1958), pp. 170-173.

Ribadisce il giudizio sostanzialmente negativo dei romantici del «Conciliatore» sul Goldoni e lo spiega, in parte, con ragioni etico-politiche precisate anche nel fastidio con cui i nostri romantici consideravano la Venezia decaduta e «turistica».

Manlio Dazzi, Il poeta della «Biondina in gondoleta» e i suoi tempi, «Nuova Antologia», XCIII (1958), 1890, pp. 164-184.

Nell’almanacco «El Schieson Venezian senza peruca per l’anno MDCCXCVIII. Cosmopoli» identificato come opera di Antonio Lamberti, il Dazzi mette in rilievo l’atteggiamento prudente e dolente del poeta veneziano di fronte agli avvenimenti della caduta della vecchia repubblica e della cessione di Campoformio adombrati in una fiacca novelletta allegorica di seduzione e abbandono di una fanciulla da parte di un avventuriero (Napoleone): avventuriero a cui piú tardi il Lamberti, temperamento debole e poeta privo di forte centro morale, non mancò di inneggiare. Ma al Dazzi preme sottolineare comunque l’interesse che il Lamberti ebbe per i casi della sua patria e piú ancora l’acuta distinzione di classi e ceti sociali nella Venezia settecentesca documentata nelle inedite Memorie degli ultimi cinquant’anni della Repubblica di Venezia (conservate in una trascrizione del 1844 alla Marciana, Documenti Rossi, Mss. it., cl. VII, 1454-1456). Da tale documento deriva un arricchimento nella analisi articolata del popolo veneziano che può aiutare «a una interpretazione meno grezza dei personaggi goldoniani».

«La Rassegna della letteratura italiana», a. 62°, serie VII, n. 2, maggio-agosto 1958

Carlo Goldoni, Le smanie per la villeggiatura. Introduzione e commento di Nicola Mangini, Casa editrice Oreste Barjes, Roma, 1959, pp. XXXI-98.

Accurata edizione della commedia goldoniana, munita di un commento garbato e utile, e di una introduzione che giunge alla presentazione della trilogia e della commedia pubblicata, dopo un discorso generale sul Goldoni, sulla sua poetica di «Mondo e Teatro», sulla sua arte come risultante «di un sicuro istinto teatrale congiunto ad una gioconda fantasia»: dove per la verità l’impegno di una presentazione scolastica non appare inciso da una piú originale volontà di impostazione critica. Danno qualche fastidio alcune formule enfatiche e ben poco caratterizzanti come quella secondo cui «il mito della donna ha trovato la sua espressione piú compiuta nel personaggio di Mirandolina, la piú famosa locandiera del teatro di tutti i tempi» o il ricorso a definizioni critiche ben poco originali come quella di G.B. De Sanctis («il titolo stesso è goldonianamente indovinato ecc. ecc.»). Non vedo bene, poi, la precisa consistenza dell’osservazione secondo cui, pur nell’ammessa sicura capacità di caratterizzazione dei personaggi nelle Smanie, si aggiunge che «quando le esigenze sceniche lo richiedono, l’autore non esita a sacrificare la coerenza artistica del personaggio».

Manlio Dazzi, Premessa al «Cavaliere di spirito» ridotto in prosa da Carlo Goldoni, «Paragone», 96 (1957), pp. 3-11. Carlo Goldoni, Il Cavaliere di spirrito o sia la donna di testa debole, trasportata dal verso martelliano alla prosa (con due componimenti per le nozze di Maria Antonietta), ibidem; pp. 12-70.

Il Dazzi pubblica la riduzione in prosa del Cavaliere di spirito quale si trova inedita in un manoscritto del codice miscellaneo VI-76 dell’Archivio queriniano (con l’aggiunta in appendice di due componimenti in versi per le nozze di Maria Antonietta) e ne dimostra, in maniera sostanzialmente plausibile, la paternità goldoniana. La premessa precisa l’origine della commedia e del rifacimento in prosa e nel loro confronto sottolinea l’interesse della commedia «come un’eccezione nel teatro goldoniano», nella sua galante fragilità (in cui si può vedere una qualche influenza di Marivaux) e nel suo scarso impegno psicologico e sociale, mentre indica il miglioramento formale ottenuto nella riduzione in prosa, in un parlato teatrale tanto piú genuino e goldoniano. Gli accenni generali alle commedie in versi del periodo ’53-58, che del resto si definiscono poco impegnativi anche in relazione al modesto compito di presentazione dell’inedito, puntano sul carattere di tentazione fuorviante di quel lungo esercizio in gran parte stimolato da ragioni pratiche e contrastante con la poetica antiletteraria del Goldoni: tema su cui si potrebbe discutere nella misura almeno della valutazione di una esperienza letteraria non tutta negativa, non in sede di risultati (a parte l’importanza ben sottolineata anche dal Dazzi dell’esercizio in versi nel dialetto con culmine nel Campiello), ma in forma di arricchimento di piú complesse possibilità espressive della parola e del dialogo, soprattutto in direzione degli Innamorati.

Vito Pandolfi, Natura e confini della riforma goldoniana, «Paragone», 100 (1958) pp. 21-32.

Piú che le considerazioni sul mondo etico del Goldoni sono interessanti in questo articolo le osservazioni piú peculiarmente teatrali sui rapporti tra la riforma goldoniana e la commedia dell’arte, rivisti in una immagine assai storica e precisa come rifiuto delle forme meccaniche e non piú contemporanee della commedia improvvisa e insieme recupero di una viva tensione mimica e scenica, attraverso la pratica collaborazione con gli attori che ancora da quella educazione teatrale derivano la loro maggiore forza scenica.

Francesco Flora, Il «Feudatario» e gli ordini sociali nel teatro del Goldoni, «Letterature moderne», VII (1957), 6, pp. 661-683, VIII (1958), 1, pp. 17-41.

Già il Givelegov, nel saggio tradotto nella «Rassegna sovietica» (settembre 1953), aveva dato grande importanza al Feudatario nella sua interpretazione di un Goldoni programmaticamente antinobiliare e propagandista di una polemica borghese prerivoluzionaria. Importanza nuovamente e contemporaneamente attribuita a quella commedia, artisticamente assai debole, dal Dazzi nel volume da me recensito nel n. 2 del 1958, e dal presente saggio del Flora. Questi parte appunto da una rilettura della ricordata commedia in cui rileva un’iniziale audacia (la bastonatura del feudatario, la rivolta dei contadini in difesa del proprio onore) e un finale ripiegamento (l’atto di umiltà dei contadini verso il feudatario divenuto di punto in bianco ottimo e ragionevole padrone), per dimostrare, attraverso un lungo excursus sulla poetica e sulla tematica goldoniane, un sostanziale sdoppiamento del commediografo fra un moralismo convenzionale di tipo arcadico (la voce insomma di Polisseno Fegeio, ammiratore degli improvvisatori e conformista e «apatista» nella sua vita privata) e una ben diversa posizione di critica dei vecchi ordini e di simpatia umana per il cosiddetto «basso rango». La concezione goldoniana del vivere, osservata nei suoi consapevoli valori logici e morali, non investe affatto il tema di un rinnovamento della società, ma «che l’occhio dell’artista si sia fermato sulla degenerazione della nobiltà e sulla rivolta dei contadini è l’inizio di quella chiaroveggenza dell’arte che pur non prendendo consapevole partito contro una situazione prelude a porre il problema di una piú sana e meno futile e piú giusta società». Proposta molto acuta e, anche su di un piano generale, molto sollecitante (e prova comunque di una nuova significativa apertura alla difficile posizione storica del Goldoni e della difficoltà di prospettarla in una decisa presa di posizione illuministica combattiva e programmatica), ma non pienamente accettabile sia per l’importanza sproporzionata attribuita al Feudatario (dove l’«artista» è poi debolissimo), sia per l’eccessiva accentuazione negativa e positiva del conformismo della poetica consapevole e dell’audacia, dell’istintiva, ingenua attività poetica. Ché si potrebbe mostrare (accettando pur questo piano di distinzione) come anche in sede di dichiarazioni non manchino riflessi dell’«audacia» goldoniana (la prefazione delle Baruffe) e viceversa come anche l’artista abbia chiare componenti di gusto idillico e di simpatia per un’armonia non distruttiva degli ordini esistenti.

Mario Baratto, «Mondo» e «Teatro» nella poetica del Goldoni, Venezia, 1957, pp. 68.

Il Baratto, già noto per due interessanti studi sulla poetica teatrale dell’Aretino e del Ruzzante (impostati in maniera assai simile a questo saggio goldoniano, e dunque prova di un’apprezzabile ispirazione critica di fronte a tante esercitazioni puramente «titolografiche»), offre in questo studio un notevole contributo all’attuale problematica goldoniana, notevole anzitutto per la decisione e chiarezza dell’impostazione, anche se viziato da una corrispettiva schematicità, che si rivela anche in un troppo deciso distacco del Goldoni dalla cultura di primo Settecento (in reazione alla nota tesi del Fubini che, di per sé poco accettabile, andrebbe però calcolata entro una articolazione piú ricca, ma non abolita, del passaggio da Arcadia a zona latamente illuministica). Il Baratto muove dalla considerazione della poetica goldoniana riscoprendo nei suoi noti termini di mondo e teatro due direzioni e due esperienze che tendono ad integrarsi e a riproporsi in uno sviluppo di arricchimento e di concretezza rivisti soprattutto nella successione di momenti dell’indagine e rappresentazione poetica della realtà ambientale e sociale. Prima la scoperta della realtà veneziana e della classe mercantile veneziana distinta dal popolo e in polemica con la decadenza economica e morale della nobiltà, attiva nella fede e nell’esercizio dei suoi valori di produttività e di reputazione-credito: personaggio rappresentativo ne è Pantalone nella sua ricerca piú individuale e familiare di consistenza economica, di onorabilità mercantile, di socievolezza bonaria e poco combattiva. Ma alla metà del secolo la realtà veneziana viene subendo una crisi involutiva che vede da una parte una piú forte ripresa della pressione oligarchica e dall’altra un indebolimento delle forze borghesi fattesi piú conservative e chiuse al moto progressivo e riformatore di altri paesi. Cosí anche la poetica goldoniana è spinta dalla sua logica interna di rappresentazione teatrale del mondo circostante, a trasferire la sua attenzione dal contrasto fra nobiltà e borghesia a quelli interni alla stessa borghesia (sessi e generazioni), a riflettere le incertezze di questa fra vecchio e nuovo, a delineare prospettive evasive-idilliche, patetiche e nostalgiche, fra il nuovo Pantalone fattosi «rustico» e conservatore e la dinamica poco conclusiva della vita familiare presa fra conservazione e bisogno di vita.

Con la conseguenza di un rischio per la poesia goldoniana che verrebbe a riacquistare il suo slancio realistico-comico quando la poetica goldoniana avverte l’esaurimento della propria materia concreta (la vita borghese) e si volge, rinnovando insieme i propri mezzi espressivi al contatto di una nuova realtà, alla vita del popolo, della plebe di cui essa scopre l’autonomia comica, l’autentico ritmo vitale fra interessi pratici, affetti, sentimento della propria cordiale solidarietà: il mondo delle Baruffe insomma.

Certo, come dicevo inizialmente, si avverte in questo saggio un pericolo di schematicità (e in parte valgono qui certe considerazioni generali fatte da me nelle schede sul libro del Dazzi e sul saggio del Fido), ma indubbiamente l’applicazione di poetica da parte del Baratto è interessante e il rapporto fra il teatro goldoniano e la società veneziana è riportato appunto piú legittimamente all’interno della poetica goldoniana di quanto non avvenga in altri saggi di simile impostazione.

Luigi Poma, Rassegna goldoniana: Manlio Dazzi, Carlo Goldoni e la sua poetica sociale, Torino, 1957; Francesco Flora, Il «Feudatario» e gli ordini sociali nel teatro del Goldoni, in «Letterature moderne», novembre-dicembre 1957, gennaio-febbraio 1958; Mario Marcazzan, Illuminismo e tradizione in Goldoni, in «Humanitas» , aprile 1958; Mario Baratto, «Mondo» e «Teatro» nella poetica del Goldoni, Venezia, 1957; Franco Fido, Per una lettura storica delle commedie goldoniane, in «Belfagor», novembre 1957; Vito Pandolfi, Natura e confini della riforma goldoniana, in «Paragone», agosto 1958; Gianfranco Folena, Il linguaggio del Goldoni: dall’improvviso al concertato, in «Paragone», ottobre 1957; Id., L’esperienza linguistica di Carlo Goldoni, in «Lettere italiane», gennaio 1958. «Giornale storico della letteratura italiana», LXXVI (1959), 413, pp. 118-127.

Presentando con brevi e misurati giudizi i contributi goldoniani considerati piú notevoli dell’anno del centenario (e puntando soprattutto su quelli del Folena e del Baratto), il recensore ne ricava alcune considerazioni generali sull’attuale momento del problema critico goldoniano, caratterizzato da uno spostamento dell’attenzione dai valori «puri» di intreccio scenico, di ritmo e concertazione dialogici a una tematica umana e storica, con la conseguente riscoperta di un impegno etico del Goldoni di fronte ai fermenti del proprio tempo. Riscoperta di cui pure (non senza qualche incertezza nel rapporto fra i giudizi sui vari contributi) il Poma rileva le possibili forzature in senso programmatico-sociale e viceversa le versioni troppo limitative e tradizionali, mentre avverte il rischio di contrapporre, in reazione alle tesi musicalistiche, un’immagine del commediografo altrettanto parziale ed univoca e troppo poco aperta alla considerazione del carattere scenico dell’opera goldoniana a cui gli studi di carattere piú formalistico del periodo precedente portarono il contributo di analisi talora fini e illuminanti. Si presenta dunque l’esigenza di un ulteriore assestamento critico non in forma di eclettico compromesso delle tesi contrastanti, ma come una piú sintetica e interna ricostruzione della personalità goldoniana e dell’intero sviluppo della sua attività creativa.

Gianfranco Folena, Per un vocabolario del veneziano di Goldoni, in «Atti dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti», CXVII (1959), pp. 79-101.

Dando notizia del progetto di un vocabolario goldoniano sotto il patrocinio dell’Istituto Veneto e della Direzione generale delle Accademie e Biblioteche, vocabolario che costituisce il primo esempio di un vocabolario dialettale fondato organicamente sull’opera di uno scrittore, il Folena ricorda come già lo stesso Goldoni nella prefazione delle Massere vagheggiasse un vocabolario veneziano «per uso delle sue commedie». Di tale progetto goldoniano non rimangono che le briciole nelle postille a piè di pagina delle commedie, che sono comunque il punto di partenza per un vocabolario goldoniano e che, magari attraverso minuzie, aprono spiragli sullo spettacolo vasto e mutevole del linguaggio goldoniano e chiariscono ulteriormente come il Goldoni, «cosí sensibile alla vita della parola (non solo dialettale, ma anche italiana), dentro il contesto, e cosí attento e sapiente nel dosare sinonimi e nel calibrare le parole secondo caratteri ed ambienti, fosse indifferente alla parola isolata, al termine di vocabolario, agli antipodi in ciò di tanti letterati e linguaioli toscani e non toscani del suo tempo».

Carlo Goldoni, Commedie, a cura di Giuseppe Petronio, Rizzoli, Milano, 1958, 2 voll., pp. 995 e 1021.

Questa larga scelta di commedie goldoniane (26 commedie), munita di brevi note introduttive e di un essenziale commento esplicativo, è preceduta da un discorso critico che il Petronio definisce piuttosto «indicazione di temi e di direzioni di studio» («analisi delle condizioni nelle quali il poeta operò e dell’influsso di queste condizioni sulla sua opera; significato culturale e sociale della riforma goldoniana; rapporti tra questa riforma e la civiltà teatrale europea nella seconda metà del Settecento; storia interna dell’arte goldoniana; definizione precisa del suo realismo; valore estetico e storico di quel teatro»). Comunque, anche tenendo conto di questo carattere piú di programma che di realizzazione, nello sviluppo rapido e mosso del discorso del Petronio mi sembrano un po’ sacrificati, fra i temi sopra enunciati, quelli piú inerenti alla caratterizzazione della poesia goldoniana e alla sua storia interna delineata come passaggio da naturalismo a realismo e progresso coerente di tecnica teatrale, di ricchezza umana e di attenzione sociale (con centrale nesso nella coscienza del rapporto profondo tra carattere e condizione sociale). E certo piú lunga attenzione vien rivolta alle «condizioni» del poeta di teatro settecentesco: convenzioni teatrali vere e proprie, remore della censura, calcolo del pubblico e degli attori. Che sono rilievi non nuovi, ma certo piú fortemente collegati fra loro, allo scopo di una presentazione piú concreta dell’operare goldoniano e di una spiegazione di certi limiti dell’opera goldoniana. Dove, per quel che riguarda il preciso rapporto fra poeta e individuati attori nella creazione dei suoi personaggi, mi pare che non si debba poi esagerare circa una destinazione e commisurazione del personaggio all’attore, comunque da non estendere a carattere perenne della pratica goldoniana quando si pensi alle grandi «tabernarie» in cui molto improbabile appare l’uso di tale procedimento.

La parte centrale del discorso del Petronio è poi quella riguardante la posizione del Goldoni nell’illuminismo e l’aspetto sociale della sua opera (con un interessante accenno alla possibile impostazione di un rapporto fra la riforma goldoniana e aspetti del nuovo teatro settecentesco europeo). E qui mi pare che il Petronio, accettando la formula felice del Valeri, di un «illuminismo popolare» del Goldoni, e risolvendo l’aspetto sociale dell’opera goldoniana nella ricordata coscienza del rapporto profondo tra carattere e condizione sociale, assuma sostanzialmente una tesi assai cauta, anche se poi parli altrove piú esplicitamente di un Goldoni polemista e riporti addirittura nella sua scelta (per il resto molto accettabile) le Femmine puntigliose, che artisticamente dicono ben poco, per l’importanza che egli attribuisce forse eccessivamente a quella commedia come portatrice delle «convinzioni ideologiche» del Goldoni. Mi pare insomma che si avverta al fondo di questo discorso, certo assai interessante e brillante, una qualche incertezza fra l’attribuzione al Goldoni di ideologie e impegnatività ideologica e sociale e semplice rilievo di una fede illuministica popolare, e di una capacità e volontà goldoniana di caratterizzazione sociale dei personaggi e di rappresentazione realistica della società veneziana. E forse, mi pare, con una certa sproporzione fra la sostanziale portata di critica «nuova» (cioè marxista) di queste pagine e la maggior decisione con cui il Petronio definisce la sua posizione nella nuova critica marxista di cui parla nel volume di storia della critica goldoniana qui sotto segnalato.

Giuseppe Petronio, Goldoni. Storia della critica, Palumbo, Palermo, 1958, pp. 138.

Questo nuovo profilo della critica goldoniana segue a poca distanza di anni quello dello Zampieri raccolto nel secondo volume dei miei «Classici italiani nella storia della critica» e se ne differenzia per una breve antologia della critica e per la volontà di un piú deciso orientamento direttivo in senso storicistico-marxistico, che dovrebbe poi caratterizzare (o comunque orientare ancor piú storicisticamente) tutta la collana Palumbo diretta dal Petronio. Non starò qui minutamente a discutere né sulla decisività e delle antologie (in genere assai scarne) e del suddetto orientamento quanto a motivazione scientifica della nuova collana, cosí cronologicamente vicina all’opera precedente, né sulla forza unitaria di quell’orientamento a quanto si può ricavare dai volumetti finora usciti (lo Scalia in una recente recensione su «Mondo operaio» colloca i vari autori in questa scala: il cattolico Mazzamuto, il crociano ortodosso Maier, il crociano filologico Santangelo, il premarxista Del Monte, il marxista Petronio: né sto qui a discutere sulla precisione e felicità di tali appellativi). Dirò senz’altro che il volumetto presente di Petronio corrisponde ad una impostazione tutt’altro che semplicemente ripetitoria di precedenti saggi, soprattutto per quel che riguarda (e cosí nel volumetto pariniano) la parte piú recente della critica. Ché il suo saggio, pur inevitabilmente ripercorrendo nomi e nodi della storia tracciata dallo Zampieri (come inevitabilmente avviene in lavori cosí simili e vicini di tempo), batte decisamente sulla prospettiva di un’immagine del Goldoni realista e storicamente impegnato nel suo tempo ideologico e sociale e punta su di un recente rinnovamento marxista del problema goldoniano, di cui il recentissimo discorso critico del Petronio (l’introduzione alle Commedie qui sopra segnalata e in parte nell’antologia) viene ad essere l’ultimo risultato; rinnovamento che si sarebbe iniziato con il saggio del Givelegov rompendo la linea delle interpretazioni idealistiche e decadentistiche novecentesche. Ora, a parte la discutibilità generale di una storia della critica che troppo chiaramente vien fatta culminare nella posizione stessa del suo estensore (di solito ciò avviene quando la storia della critica è solo introduzione diretta ad un’opera propria, o avviene comunque in maniera piú implicita e problematica), non direi che la linea tracciata da Petronio sia pienamente soddisfacente, cosí rigida e risolutamente manichea come essa si presenta soprattutto nella parte novecentesca. Dove piú si fa tendenziosa e parziale rispetto alle molte offerte critiche dette idealistiche e decadentistiche e rispetto alla complessità di una interpretazione nuova del Goldoni che rappresenti davvero una «storicizzazione integrale» nel senso che si deve dare a tale mèta ambiziosa quando si tratta di poesia. Ché riconoscerla già nel saggio del Givelegov senza precise limitazioni (parlai io per primo di quel saggio e ne riconobbi il valore stimolante, ma insieme indicandone i limiti ben evidenti) significa appunto accettare una versione di quella mèta critica assai parziale ed elementare (a parte il fatto che nella presentazione petroniana del saggio del Givelegov pare poi smussarsi un po’ troppo la maggior decisione della formula di un Goldoni programmatico propagandista delle nuove ideologie borghesi). Troppo facile è la riduzione tutta negativa della ricchezza di contributi estetico-psicologici, di effettive interpretazioni di aspetti della poesia e della dimensione teatrale del Goldoni, che pur presentano ad un critico decisamente storicistico, certi saggi novecenteschi, come quelli anzitutto di un Momigliano. E troppo facile la linea tutta positiva della nuova critica (di cui poi mancano alcune voci interessanti dell’anno del centenario) come piuttosto artificiosa la funzione di «ponte» attribuita alle pagine del Sapegno in cui la qualifica di realismo goldoniano è in realtà poi tutta riferita, quanto a poesia, alla tesi della nostalgia del piccolo mondo antico derivante dal Gimmelli. Ciò che può confermare come la linea sia un po’ troppo precostituita in vista di una finale e non problematica risoluzione positiva nell’intervento di un indirizzo critico di cui l’estensore della storia rappresenterebbe poi l’ultimo risultato attuale.

In conclusione, ripeto, il recente volume del Petronio è lontano nettamente dal pericolo, assai grave, di una storia della critica anodina e puramente registratrice, ma l’altro rischio di rigidità e di precostituita soluzione finale è qui francamente troppo aperto per non suscitare dissensi proprio da parte di chi condivida pienamente l’esigenza di una impostazione storicistica, sia nella critica che nella storia della critica.

«La Rassegna della letteratura italiana», a. 63°, serie VII, n. 2, maggio-agosto 1959

Attilio Momigliano, Studi goldoniani, Istituto per la collaborazione culturale, Venezia-Roma, 1959, pp. 239.

Preceduti da una «testimonianza a Attilio Momigliano» di Vittore Branca, diligente curatore del volume, vengono qui ripubblicati tutti i saggi goldoniani del grande critico piemontese. Non occorrerà sottolineare l’importanza e l’utilità di questa raccolta che offre agli studiosi saggi non facilmente reperibili e che nella loro compresenza meglio permettono la conoscenza e la valutazione dell’importante contributo goldoniano del Momigliano: un contributo non solo fondamentale nella storia del problema critico goldoniano, ma assai significativo nell’attività del critico e proprio in una delle sue dimensioni di interesse vivo per la comicità e la «divina» letizia come aspetti ben pertinenti al regno della poesia.

Attilio Momigliano, Le opere di Carlo Goldoni, a cura di Ettore Bonora, Loescher, Torino, 1960, pp. 426.

Preceduta da alcune pagine introduttive del Bonora sugli studi goldoniani del Momigliano, viene integralmente ripubblicata la prima edizione (del 1914; ché quella del 1926 era stata ridotta) della bellissima antologia goldoniana in cui il Momigliano risistemava i suoi risultati critici precedenti in una interpretazione del mondo goldoniano fatta attraverso una scelta di commedie (Ventaglio, Locandiera, Rusteghi) ritenute significative per diversi aspetti della poesia goldoniana, e un’ampia raccolta di brani dei Mémoires e di altre opere atte a rilevare i caratteri dell’uomo, dello scrittore, del mondo da lui rappresentato artisticamente, della sua formazione e del suo svolgimento. Con una partitura antologica estremamente originale e un’aderenza a criteri direttivi che, in quella fase dell’attività del Momigliano, mi paiono molto interessanti ad intendere la vastità e la ricchezza della sua tematica e problematica critica: scopo fondamentale l’illuminazione critica del valore estetico realizzato (su cui punta il commento dichiaratamente «estetico»), ma insieme attenzione alla nascita dell’opera nelle ragioni interne dell’uomo e nel suo svolgimento.

Renato Bertacchini, Rassegna goldoniana, «Studium», L (1959), 9, pp. 627-637.

Tracciando un breve quadro delle linee della critica goldoniana del Novecento si sofferma su alcuni saggi recenti, del Folena, del Dazzi, del Petronio, facendo riserve soprattutto alla interpretazione diretta e alla storia della critica di quest’ultimo per una eccessiva attribuzione al Goldoni di «chiarezza di intenzioni critiche» e di «consapevole funzione di portavoce sociale».

«La Rassegna della letteratura italiana», a. 64°, serie VII, n. 1, gennaio-aprile 1960

Luigi Russo, Il teatro di Carlo Goldoni, «Belfagor», XV (1960), 3, pp. 257-269.

È il testo di una conferenza tenuta alla Sorbona e perciò inevitabilmente il discorso critico è disposto in forma piú conversevole e aperta. Vi si possono rilevare, intorno alle questioni che il Russo discute, varie affermazioni di metodo sempre importanti. Quella della necessità di distinzione storica su parole spesso troppo livellate, come realismo («il realismo settecentesco è molto diverso dal realismo dell’Ottocento: questo è di genesi romantica, quell’altro è un realismo di genesi per dir cosí naturalistica e di scaturigine galileiana»), il rifiuto di uno studio dell’opera goldoniana secondo la partizione di commedie di carattere, d’intreccio, d’ambiente, e della necessità di studiare «l’opera del Goldoni geneticamente, nella sua nascita e nel suo sviluppo, aborrendo dal metodo classificatorio che non è mai proprio delle scienze storiche ma semmai delle scienze naturali»; l’avvertimento sui rischi della critica marxistica («insieme con la loro veduta nuova, spesso si accompagna un’interpretazione dei testi che va al di là dei giusti termini dell’opera goldoniana», anche se ciò avverrebbe secondo una tendenza prevaricatrice di ogni critica data la «politicità preterintenzionale» di ogni critica non puramente cronistica). Rispetto al problema della collocazione storica del Goldoni il Russo rifiuta la sua retrodatazione arcadica, e insieme la interpretazione marxistica, proponendo semmai la formula di un teatro goldoniano come «teatro populista» e sottolineando il fatto che il Goldoni (anche per quanto risulta dalla impostazione dei Mémoires come «tentativo» di autocritica, con residui di memoria come curiosità aneddotica) rimase in molte cose a mezzo: «fu un demicattolico inconscio, e non in tutto un uomo moderno consapevole della sua autonomia».

Carlo Goldoni, Teatro scelto, a cura di Gian Antonio Cibotto, Editrice Colombo, Roma, 1958, pp. 315.

La piccola antologia (Locandiera, Baruffe chiozzotte, Ventaglio), non commentata, è munita di piccoli glossari, da una nota biografica, da un’antologia critica, e da una lunga introduzione che, in un discorso non tutto ugualmente teso coerente e convincente, ma pure non privo d’interesse, punta su di una formulazione storica del Goldoni come portatore poetico di un messaggio prerivoluzionario concreto nei limiti di una sincera adesione al mondo popolare e nei limiti di un proposito «non di sovvertire, ma semmai di correggere, restituendola ad una misura ideale di civiltà», la società veneziana. «Goldoni fu un rivoluzionario dentro la legge, preoccupatissimo di rispettare norme ed istituti della società nella quale si era trovato a vivere, e nello stesso tempo moralisticamente impegnato a segnalare le deficienze, i sintomi negativi, che andavano, a suo avviso, corretti e riveduti. Insomma la sua polemica non scaturí da un rigore morale e sociale programmatici, ma piuttosto da un’esigenza sentita di volere dai vari ceti e dalle piú diverse categorie il rispetto di un decoro che lui stimava deontologicamente il meglio».

Nicola Mangini, Una lettera ignorata del Goldoni a Madame Duchesne, «Lettere italiane», XII (1960), 1, pp. 103-105.

Ripubblica – perché sconosciuta agli studiosi anche se non inedita (fu pubblicata nel 1936 da R.L. Hawkins, Une vingtaine de lettres inédites, «Révue d’histoire littéraire de la France», 1936) e sfuggita anche all’edizione veneziana e mondadoriana dell’Ortolani – una lettera alla Duchesne, titolare della casa editrice parigina che stampò i Mémoires e Le bourru bienfaisant. La lettera riprodotta diplomaticamente dall’autografo può essere utile a precisare la storia esterna dei Mémoires e le condizioni di malattia in cui il lavoro dei Mémoires fu portato avanti e compiuto sino alla pubblicazione.

«La Rassegna della letteratura italiana», a. 64°, serie VII, n. 2, maggio-agosto 1960

Ettore Caccia, Carattere e caratteri nella commedia del Goldoni, Istituto per la collaborazione culturale, Venezia-Roma, pp. 268.

Alla vecchia ripartizione dell’opera goldoniana in commedie di carattere e di ambiente il presente libro vuol contrapporre la formula piuttosto della «commedia dei caratteri» e nella ricerca dei caratteri propone l’origine del realismo goldoniano di cui, sempre nella predominante linea dei caratteri, il Caccia si preoccupa di indicare la coscienza di poetica e la convergenza di molta critica a cominciare dal De Sanctis che affermava: «centro del suo mondo comico è il carattere». Al centro dell’infinita varietà di caratteri cui si rivolse l’attenzione creativa del poeta teatrale il Caccia individua poi tre personaggi fondamentali («il servo, abile o sciocco, la donna, o scaltra o appassionata o vigorosa, l’uomo o maniaco o saggio e avveduto») e – dopo un lungo capitolo sulle fonti letterarie delle commedie goldoniane – di questi tre personaggi fondamentali e delle loro sfumature delinea una lunga caratterizzazione ed esemplificazione, per poi passare a tracciare nei successivi capitoli una descrizione delle fasi successive dell’attività goldoniana: una fase di realismo etico (sino alla Famiglia dell’antiquario), una fase contraddistinta dall’equilibrio raggiunto fra «mondo» e «teatro» (dal Teatro comico alla Donna vendicativa), una fase di «teatro puro» (1754-58) ed una, quella dei capolavori, definita come «realismo del cuore». Storia, che, come il capitolo stesso sulle fonti, punta costantemente sulla ricerca e la poesia del carattere.

Non si può dunque negare a questo libro una sua precisa direzione di ricerca e di studio, ma proprio in tale rigidezza è poi il suo limite piú vistoso: appunto uno schematismo che comprime pericolosamente proprio quella vitalità poetica corale o, come una volta si diceva, di ambiente, quell’organicità di visione di una realtà sociale, quello slancio di creazione di una situazione comica che non può assolutamente ridursi all’attenzione e alla creazione di singoli caratteri. Nonché uno schematismo nella stessa individuazione dei tre personaggi fondamentali e una notevole arcaicità anche nello studio delle fonti che, cosí disposte solo all’individuazione di schemi di carattere, non può risolversi in quella piú vera storia della poetica goldoniana in cui le stesse fonti (a parte la vecchia parola che potrebbe pure sottintendere ricerche nuove) posson diventare documento della formazione goldoniana e della sua tecnica teatrale. Ma il libro non manca, pur nello schema rigido e in certe designazioni poco soddisfacenti delle varie fasi goldoniane – troppo poco storicizzate e troppo risolte in designazioni un po’ facili, come quella del «realismo del cuore», che non potrebbe certo adeguare, neppure per scorcio, la ricchezza e la personalità delle grandi commedie veneziane (e rischia di risuscitare l’immagine vecchiotta di «papà Goldoni»), – di analisi puntuali piú indovinate, di alcuni ritratti di personaggi e di commedie meglio avvicinate. Insomma malgrado lo schema soprattutto un libro di appunti di lettura a volte piú, a volte meno affiatato con i testi, ma di per sé ancora preparatorio – mi sembra – di fronte ai compiti di una vera storia dell’arte goldoniana quale dai recenti studi sul Goldoni (e non importa se con quelli profondamente d’accordo) è sempre piú sollecitata a superare visioni parziali e tendenziose la cui tensione stimolante non mi par tuttavia sia stata effettivamente attiva nel volenteroso libro del Caccia.

Franco Fido, recensione a Attilio Momigliano, Studi goldoniani, «Belfagor», XV (1960), 2, pp. 213-220.

L’articolo del Fido tende a fortemente limitare (d’accordo con la recente storia della critica del Petronio) il valore degli studi goldoniani del Momigliano, come critica impressionistica e psicologica, fonte in parte delle successive deviazioni della tesi del «teatro puro».

Non approvo la posizione generale del Fido che troppo riduce il valore dei saggi del Momigliano: d’accordo sullo scarso impegno storicistico anche nei riguardi dello svolgimento dell’arte goldoniana che avrebbe ridotto di molto certe limitazioni momiglianesche piú facili nella considerazione globale di opere disposte nel tempo e variamente mature, ma non d’accordo sulla scarsa incomprensione del fatto che in quel momento – di fronte alle vecchie valutazioni moralistiche e positivistiche – quello del Momigliano è il primo valido riavvicinamento alla «poesia» del Goldoni e che nessuna ricostruzione di tipo storicistico potrebbe fare a meno di recuperare in altra prospettiva le ricche e finissime indicazioni delle analisi del Momigliano.

Per quel che riguarda il mio accenno al Goldoni metastasiano non volevo affatto postulare una facile continuità fra il Goldoni e il Metastasio e l’Arcadia (convinto come sono della scarsa validità della tesi fubiniana dell’inveramento goldoniano della riforma arcadica, cosí come dell’inveramento pariniano dell’umanesimo arcadico), ma volevo richiamare critici come il Fido ad una considerazione piú equilibrata dall’arte goldoniana, della complessità della sua formazione letteraria e stilistica, della suggestione (testimoniata dallo stesso Goldoni) che il Metastasio poeta dei sottili moti del cuore (e non semplice poeta di evasione aulica come generalmente lo vede il Fido) rappresentava per lo sviluppo della maggior finezza goldoniana, specie nella zona 1753-58 verso la meta degli Innamorati.

Ettore Bonora, recensione a Attilio Momigliano, Studi goldoniani, a c. di Vittore Branca, «Giornale storico della letteratura italiana», LXXXVII (1960), f. 417, pp. 145-149.

Rileva il valore di questi saggi giovanili del Momigliano, la loro estrema ricchezza di analisi, la prontezza e giustezza della sua reazione mai ingannata da pure seduzioni di contenuto, come il caso del Feudatario, di cui il critico ben sapeva vedere e i limiti artistici e l’inconsistenza degli intenti di satira sociale che il titolo lascerebbe sospettare.

Eugenio Levi, Il comico di carattere da Teofrasto a Pirandello, Torino, Einaudi, 1959, pp. 183.

Il volume raccoglie – intorno ad una premessa sulla «comicità di carattere che appartiene all’alto comico; a quel comico cioè che presuppone un serio che possa essere negato» – vari saggi già pubblicati dal 1920 in poi su diverse riviste; La favola nel teatro comico e nelle commedie dell’arte; Goldoni e la commedia di carattere; La Mandragola del Machiavelli; Molière e la comicità del carattere; La morale goldoniana; Goldoni allo specchio; Il carattere e il teatro verista («La moglie ideale» di Praga); L’umorismo di Pirandello: Sei personaggi in cerca di autore; I tre miti di Pirandello. Scritti tutti assai acuti e interessanti, avvivati da un sincero sentimento della dimensione teatrale. Particolarmente vivaci quelli goldoniani (e perciò si scheda il libro nella rassegna settecentesca) di cui piace sottolineare, piú che la persuasività troppo limitata da una certa eccessiva sottigliezza psicologica e da una sensibilità che qua e là sfiora un certo sapore decadentistico, l’acuta reazione personale a singoli momenti della commedia goldoniana e la decisa opposizione ad ogni interpretazione naturalistica e moralistica della grande arte goldoniana.

«La Rassegna della letteratura italiana», a. 64°, serie VII, n. 3, settembre-dicembre 1960

Nicola Mangini, Bibliografia goldoniana, Istituto per la collaborazione culturale, Venezia-Roma, 1960, pp. XX-466.

Dopo le vecchie bibliografie goldoniane dello Spinelli (Milano, 1884) e del Della Torre (Firenze, 1908), questo nuovo lavoro rappresenta un utilissimo contributo bibliografico che copre il periodo 1908-1957.

Si articola in tre parti: Edizioni, Traduzioni, Critica (oltre a un’appendice in cui si elencano opere letterarie e musicali, teatrali, film ispirati a soggetti e motivi goldoniani). Il tutto è ordinato cronologicamente, ma il reperimento per soggetto è facilitato dall’abbondante indice analitico. Utile l’inserimento delle Cronache teatrali piú importanti. Discutibile invece l’esclusione, malgrado la loro notorietà, delle storie della letteratura e del teatro, e la limitatezza dei riassunti-indice di opere critiche su cui lo studioso avrebbe potuto utilmente largheggiare di piú.

Dispiace che il lavoro non comprenda anche il 1958 come prosecuzione dell’attività del centocinquantenario.

Studi goldoniani, a cura di Vittore Branca e Nicola Mangini, Istituto per la collaborazione culturale, Venezia-Roma, 1960, 2 voll., pp. XVI-219-1002.

I due volumi presenti raccolgono le relazioni e le comunicazioni tenute al Congresso goldoniano di Venezia del 1957, e offrono (seppure con naturali diversità di interesse e validità) un vasto materiale di notizie e di idee critiche sul problema goldoniano. Non sto qui a ricordare l’eccezionale importanza della relazione di G. Folena, L’esperienza linguistica di Carlo Goldoni, delle cui idee, già esposte in un articolo su «Lettere italiane», parlai in una scheda del 1958; né darò conto della relazione di M. Marcazzan, Illuminismo e tradizione in Carlo Goldoni, già a suo tempo schedata da me nella anticipazione fattane dall’autore in «Humanitas» o della relazione di M. Dazzi, Testimonianze sulla società veneziana al tempo di Goldoni, dato che le idee goldoniane del Dazzi furono qui discusse nelle schede sul volume Carlo Goldoni e la sua poetica sociale e sull’edizione del Lamberti (noterò solo che in seguito al mio intervento sui limiti dell’illuminismo goldoniano – i cui termini vennero ripresi e precisati in quello sulla relazione del Marcazzan – il Dazzi precisò di aver voluto legare Goldoni non all’illuminismo, ma al razionalismo della prima metà del secolo, andando cosí al di là delle mie osservazioni che si possono leggere nei presenti volumi e saranno ripubblicate in un volume di prossima pubblicazione presso la «Nuova Italia», Arcadia e neoclassicismo). Quanto alla relazione di G. Bellonci, Goldoni e il teatro puro, riporto in breve le osservazioni del mio intervento che sottolineava la finezza della relazione, ma esprimeva riserve sia sull’asserzione secondo cui i personaggi goldoniani furono concepiti in vista degli attori di cui l’autore disponeva (il che ridurrebbe alla fine di troppo la libertà creativa e la ricchezza di esperienza umana e psicologica del Goldoni e che va tanto piú limitato nei confronti della maturità goldoniana) sia sulla tendenza a prospettare l’opera goldoniana in termini di «teatro puro» (con l’inerente esasperazione della continuità Goldoni-commedia) che porterebbe, come avviene nella relazione, a considerare il Ventaglio culmine della poesia goldoniana.

Un’ultima relazione, quella di Raul Radice, Vent’anni di regia goldoniana, dalla scuola al palcoscenico, delinea utilmente la storia della recente rinascita goldoniana mettendo in rilievo il rapporto fra critica e regia, la bipartizione dei registi fra quelli che puntano sulla ricerca di un «realismo assoluto» e quelli che tentano una trasformazione in opera buffa o addirittura in balletto, e infine augurandosi il prevalere di una regia adatta all’immagine di un Goldoni «vero e trasfigurato» secondo le osservazioni del Paradosso su Goldoni del Bernardelli.

Il secondo volume raccoglie le comunicazioni divise in due sezioni: il teatro goldoniano nel mondo e studi e letture goldoniane. Nella prima è studiata la fortuna di Goldoni nelle varie culture nazionali (L. Ay, Turchia; Bédarida, Francia; Brahmer, Polonia; Čale, Serbia; Doncev e Tomov, Bulgaria; Elwert, Germania; Gallina, Catalogna; Grimme, Austria; Mangini, U.S.A., Russia, Cecoslovacchia, Ungheria, Romania; MariuttinDe Sánchez Rivero, Spagna; Mokulski, URSS; Peternolli, Paesi Bassi; Rabac e Škerlj, Serbia e Slovenia; Terlingen, Olanda; Van Nuffel, Belgio; Weiss, Inghilterra), nella seconda si incontrano veri e propri interventi critici centrali come quelli (già pubblicati e alcuni qui schedati) del Flora, del Baratto, del Piovene, del Petronio ed altri pure interessanti su aspetti e motivi dell’arte goldoniana: Di Pino, Barberi Squarotti, Caccia, Da Pozzo, Mazzali, Nardi, Roedel, Roffaré, Vianello, Zambon, G.B. De Sanctis, insieme a comunicazioni sulla bibliografia e storia della critica o delle rappresentazioni (Mangini, Massano, Pullini, Zajotti, Zanardo; Morando, Gallo, Gentile, Geron) o su particolari biografici (Brunelli Bonetti), su rapporti fra Goldoni e altri autori (Meregalli, Mignon, Ferrero), sulla librettistica goldoniana (Della Corte, De’ Paoli), su aspetti della scenografia e interpretazione teatrale (Longhi, Lorme, Momo, Pilo) o su altri aspetti del pensiero (Passarella), sulla filologia (Jenni), sul pensiero teatrale (Cucchetti) del Goldoni o sulle possibilità di traduzione di opere goldoniane (Klefisch) o su questioni piú marginali rispetto al tema goldoniano (Jannaco).

Josef BukáČek, Carlo Goldoni. Osobnost a doba, Nakladatelstvi Českoloslovenské Akademie Věd, Praha, 1957, pp. 404.

Servendoci dell’ampio riassunto in italiano posto alla fine dell’opera (purtroppo inadeguato a rendere la vera portata del testo) diamo qui lo schema del lavoro goldoniano dello studioso ceco. Esso si apre con una parte dedicata a delineare la situazione politico-sociale e letteraria dell’Italia settecentesca già precisando in questa un profilo assai cauto della posizione del Goldoni nel paragone con il Parini («il Goldoni certo non sente i problemi della seconda metà del ’700 cosí pungentemente come il Parini; egli è, al pari dell’Ariosto, piuttosto specchio che coscienza della sua epoca»), nella asserzione che «l’opera del Goldoni rappresenta, sino a un certo punto, una delle manifestazioni dell’illuminismo italiano ed europeo», nella constatazione della compresenza in lui, pur portavoce della media borghesia e di una reazione antiaristocratica, di tendenze illuministiche (sentimento sociale, ottimismo, concezione razionale e morale della natura e della società, patriottismo senza sciovinismo, ricerca di naturalezza e satira morale) e di elementi fra conservatori e reazionari (fiacco sentimento della natura, inclinazione verso l’idillio, epicureismo flemmatico e accomodante conformismo «da cui risulta che la sua satira antifeudale è soltanto morale e non politica»). Diagnosi (su cui in realtà si potrebbe osservare una eccessiva schematicità di contrapposizione) che si traduce poi nella piú diretta presentazione della personalità goldoniana, nel rilievo del valore documentario della sua opera di cui si assicurano certe componenti rococò di spensieratezza, gli elementi di prudenza e moderazione, di utilitarismo che conduce al conformismo e ancora di nuovo la tendenza all’idillio («la natura esterna con le sue bellezze concrete decade spesso in Goldoni a una culissa convenzionale della campagna stilizzata alla rococò»), la sua religiosità laica, il suo patriottismo locale, il carattere prudente della sua tendenza riformatrice che non vuole sovvertire l’antico ordine, ma soltanto riformarlo in via d’evoluzione, e che gli permette di vedere anche i lati negativi del ceto borghese e popolare (da cui giustamente il Bukáček esclude i contadini «idealizzati arcadicamente», e giustamente contro certe ipervalutazioni del Feudatario). Posizione, questa del Bukáček, ripeto, assai cauta nell’ambito di una interpretazione sociologica che non si propone una vera valutazione estetica dell’opera goldoniana e si intorbida qua e là con riferimenti non molto chiari a posizioni teatrali moderne (come là dove postula una via fra la concezione goldoniana dei personaggi che possono divenire fantocci meccanici quando mancano di freno morale o «economico» e cedono al giuoco del destino e delle proprie passioni, e i fondamenti ideologici e artistici del grottesco italiano del dopoguerra, «alla commedia di Rosso di San Secondo, per esempio, forse non senza l’influenza dell’immagine leopardiana di uomo-maschera e uomo-fantoccio»).

«La Rassegna della letteratura italiana», a. 65°, serie VII, n. 1, gennaio-aprile 1961

Manlio Dazzi, Il «grillo» politico di Carlo Goldoni, «Nuova Antologia», XCVI (1961), f. 1930, pp. 197-214.

In relazione alla discussione svoltasi al Congresso goldoniano del ’57 fra me e il Dazzi, questi riprende un suo tema goldoniano circa «un privato “pallino” politico che si rigirò talvolta nell’animo del Goldoni e che è un indizio, sia pur minimo, della sua tendenza a partecipare agli interessi del proprio tempo». La documentazione riportata in proposito non mi pare che sposti di molto i termini della discussione, anche perché, pur concordando con la mia indicazione (nella discussione sulla relazione di Marcazzan nel ricordato congresso) riguardo al fatto che il soggiorno francese operò una maggiore apertura delle consonanze goldoniane con tendenze illuministiche e che ciò ebbe riflesso soprattutto nei Mémoires, non si elimina l’estrema limitatezza di un vero interesse «politico» del Goldoni (del resto sempre piú ristretto dal Dazzi nei termini soprariportati) di fronte ad elementi di piú generale tensione razionalistico-illuministica recuperabili nel Goldoni fuori di una direzione precisamente «politica» e politicamente ideologica. Rimando in proposito alla mia recente nota goldoniana in questa rivista nel numero precedente.

Franco Fido, Itinerari e prospettive della critica goldoniana, «Belfagor», XVI (1961), 2, pp. 195-210.

Riprendendo un discorso svolto già, sia in un saggio diretto sul Goldoni (cfr. la mia scheda nel n. 2 del ’58 di questa rivista) sia in recensioni a suo tempo da me segnalate, il Fido espone e discute i risultati della piú recente critica goldoniana (per quella meno recente aderisce sostanzialmente al quadro delineatone nella storia della critica del Petronio) soprattutto in base alle relazioni e comunicazioni del Congresso goldoniano del ’57 che gli sembrano implicare alcuni risultati di effettivo rinnovamento del problema goldoniano: superamento della interpretazione di teatro «puro», della pregiudiziale puristica circa la netta distinzione tra la felicità del dialetto e l’infelicità dello scrittore in lingua, piú sicuro inserimento del Goldoni nell’illuminismo e piú sicura considerazione della sua poetica nella sua carica sociale rinnovatrice. A quest’ultimo proposito il Fido ritiene che le mie osservazioni in merito alla relazione del Dazzi (ma perché non tener conto anche di quelle da me fatte sulla relazione Marcazzan che integrano le prime?) siano da ricollegare ad una ripresa dell’interpretazione del Goldoni nei limiti del razionalismo primosettecentesco e ad un troppo stretto nesso tra ideologia e letteratura che mi avrebbe portato a troppo distinguere la posizione coscientemente illuministica del Parini da quella del Goldoni. Sicché io avrei finito, in una interpretazione «massimalistica», per rimproverare al Goldoni «di non essere nato a Milano». Mi pare che il Fido non abbia compreso sufficientemente tutto il mio pensiero quale si ricava da tutti i miei interventi veneziani, fra loro coerenti e coordinati (da cui si ricollegano anche le osservazioni dirette nella mia recente nota sulla misura umana del Goldoni) e che l’ultimo rimprovero sia piú brillante che sostanzioso: perché sta di fatto (ciò che è sempre indispensabile premessa di ogni ragionamento storico) che il Parini visse una concreta esperienza illuministica agevolata dalla situazione storica precisa in cui egli si svolse, mentre il Goldoni ebbe in quel senso un’esperienza tanto piú limitata e meno sicura e un impegno tanto meno decisamente combattivo e programmatico. Ciò non toglie che in lui, come mi pare di aver piú volte detto, vi siano elementi di sviluppo razionalistico-illuministico (anche piú chiaramente espressi nei Mémoires, nel tardo periodo francese, e comunque sempre lontani da una presa di posizione in senso prerivoluzionario), ma essi valgono piú come fermenti generali della sua poetica indubbiamente nuova e originale, che non come princípi di battaglia illuministica consapevole della sua portata sociale e politica.

Naturalmente il paragone con il Parini non è che un modo di distinzione che non può di per sé esaurire la discussione sulla particolare posizione goldoniana, ma esso mi serviva per un chiarimento dei confini di quella posizione che sono anche confini storici collegabili ad una storia di formazione culturale effettiva e non ad una inutile storia dei «se» (se Goldoni fosse nato a Milano...). Né si tratta di svuotare l’opera goldoniana della sua forza di vitale novità e di attivo interesse per la vita degli uomini e della città degli uomini che si colora chiaramente di consonanze razionalistico-illuministiche, ma di rifiutarne la rigida programmaticità e la precisa consapevolezza combattiva, non per una svalutazione o riduzione in termini di teatro «puro», ma per una storicistica delimitazione e configurazione di una reale situazione storica e personale.

«La Rassegna della letteratura italiana», a. 65°, serie VII, n. 3, settembre-dicembre 1961

Giuseppe Ortolani, La riforma del teatro nel Settecento e altri scritti, Istituto per la collaborazione culturale, Venezia-Roma, 1962, pp. XXVII-471.

Munito di una introduzione di Gino Damerini dedicata a ricostruire le fasi dell’attività settecentesca dell’Ortolani e arricchito di una bibliografia degli scritti del noto goldonista, accuratamente redatta da Nicola Mangini, il volume raccoglie un folto numero di saggi e appunti dell’Ortolani di vario interesse ed impegno, ma certo nell’insieme non inutili per gli studiosi del Settecento e contraddistinti da un buon senso e da un garbo di tipo mazzoniano (l’Ortolani fu scolaro, a Padova, di Guido Mazzoni) e spesso ricchi, se non di spunti critici veri e propri, di notizie, riferimenti, considerazioni che possono riuscire fruttuosi in mano a nuovi studiosi, specie del teatro settecentesco. Particolarmente notevoli i saggi Appunti per la storia della riforma del teatro nel Settecento (con il rilievo dato alle idee di riforma del Maffei e del Carli), Appunti per la storia della riforma goldoniana, i saggi sui melodrammi giocosi e sulle commedie aristocratiche del Goldoni (che servono ad una storia piú analitica del periodo ’53-58), le precisazioni in margine allo studio dell’Ortiz su Goldoni e la Francia, i saggi su Carlo Gozzi e la riforma del teatro e su Carlo Gozzi ipocondriaco che offrono riferimenti a documenti e lettere inedite sulla linea dei due interessi piú vivi dell’Ortolani: l’idea della riforma teatrale veneziana e l’interesse per l’umanità dei suoi autori, anche se questo secondo interesse scade facilmente verso un’accezione troppo bonaria e mediocre di umanità.

Nicola Mangini, Una lettera inedita di Carlo Goldoni e il carteggio con il teatro di San Luca, Estratto da «Ateneo veneto», CLIII (1962), 2, pp. 11.

Pubblica una lettera del Goldoni al Vendramin (18 dicembre 1757) che si trova nella biblioteca carducciana, e ne trae spunto per indagare sulle difficoltà goldoniane provocate dagli umori degli attori (in quel caso il Falchi e il Maiani) e per trattare la questione del carteggio Goldoni-Vendramin di cui auspica nuovi ritrovamenti, e a cui ci riconducono altri due documenti qui pubblicati.

«La Rassegna della letteratura italiana», a. 67°, serie VII, n. 2, maggio-settembre 1963

Luisa Rossato, Il linguaggio dei «Rusteghi» e il veneziano «civile» del Goldoni, «Atti dell’Istituto veneto di Scienze, Lettere ed Arti», CXX (1961-1962), pp. 579-641.

Basandosi sul noto studio del Folena, di cui l’autrice è scolara, e utilizzando vari studi critici goldoniani (specialmente del Momigliano, dell’Ortolani, ecc.) che convergono nell’identificazione della prova di alta maturità poetica rappresentata dalle commedie veneziane del ’60-62, quando la forza creativa, la coscienza poetica, la sicurezza del dominio di una realtà esperita, vista nei suoi limiti e vagheggiata con nostalgia (secondo la tesi del Gimmelli qui ripresentata nella ripresa rinnovata del Sapegno) sorreggono la stessa sicurezza linguistica e stilistica del Goldoni, la Rossato studia con osservazioni fini e diligenti il tipo di «misura» alta e civile del dialetto dei Rusteghi, superiore conquista rispetto a quella piú popolare delle prime precedenti esperienze goldoniane. L’analisi e la elencazione dei caratteri e mezzi di questa lingua (intercalare e tic linguistico, elementi fonoespressivi, coniazioni comiche e giochi di parole, ripetizione comica, iperboli, antifrasi, metafore, similitudini, proverbi, note colloquiali espressive, modificazioni espressive, allocuzioni, incisi, pronomi e usi allocutivi, distinzione fra la parlata dei rusteghi, delle donne, della parlata di Siora Felice e dell’italiano del conte Riccardo) si concludono nella ribadita affermazione di una compattezza e di una costruzione musicale organica coerenti al carattere piú «alto» del dialetto cui conducevano anche le osservazioni grammaticali e quelle sulla scelta delle varianti.

«La Rassegna della letteratura italiana», a. 68°, serie VII, n. 2-3, maggio-dicembre 1964

Nicola Mangini, La fortuna di Carlo Goldoni e altri saggi goldoniani, Firenze, Le Monnier, 1965, pp. VIII-212.

Raccoglie vari articoli già pubblicati in stesure piú ridotte (Profilo storico della fortuna di Carlo Goldoni nel mondo, Fortuna del Goldoni sulle scene italiane dell’Ottocento, Il tema della villeggiatura nel teatro goldoniano, L’interpretazione dei «Mémoires», Contributo all’epistolario goldoniano), piú interessanti quelli di storia della fortuna, piú generici gli altri di interpretazione diretta (specie quello sui Mémoires che punta sulla idealizzazione della propria vita in funzione della propria missione teatrale da parte del Goldoni, ma meno realizza quanto si può ricavare dall’autobiografia senile circa la vita interiore, i gusti, i caratteri della personalità goldoniana).

Diego Valeri, La prima commedia veneziana di Carlo Goldoni, «Rivista di cultura classica e medievale», Studi di Alfredo Schiaffini, VII, 1-3 (1965), pp. 1135-1141.

Fine analisi della Putta onorata di cui si rileva, malgrado grossi difetti di struttura (intrigo inutilmente complicato, incidenti ben poco verisimili ecc.), la novità e singolarità nello sviluppo goldoniano: e cioè anzitutto «un candido amore della vita semplice e dell’integrità morale proprie del miglior popolo veneziano» e poi la cresciuta attenzione ai caratteri (Bertina, Catte, il marchese Ottavio e la marchesa Beatrice, Pantalone, Lelio e tutti i personaggi popolari). Vivacissime son giudicate le scene dei gondolieri in cui però il dialetto piú abbondante e colorito sfiora il gioco virtuosistico, mentre esso trova accenti profondi nella voce di Bettina e di Pantalone fino a toccare esiti di canto.

Cosí con mezzi modesti, il Goldoni, reinserendosi nel mondo veneziano, «faceva una rivoluzione, la sua rivoluzione» che doveva restituire alla letteratura, e in particolare al teatro, «il senso della verità umana e quello della parola, non come puro suono, ma come mezzo espressivo di quella verità»: cose giuste e dette con la semplicità e la chiarezza di un lettore profondamente innamorato della verità umana e della parola «umana».

«La Rassegna della letteratura italiana», a. 70°, serie VII, n. 2-3, maggio-dicembre 1966

Ivo Mattozzi, Carlo Goldoni e la professione di scrittore, «Studi e problemi di critica testuale», aprile 1972, pp. 95-153.

In questo ampio e ben informato studio il Mattozzi delinea minutamente un aspetto dell’attività del Goldoni – quella del suo impegno pratico di editore delle proprie opere e di collocatore di queste entro le offerte e possibilità del teatro veneziano – che viene riportata a indicazioni assai interessanti (in discussione con affermazioni del Petronio che troppo vedeva Goldoni solitario nell’ambiente veneziano, considerava le sue condizioni di lavoro in quell’ambiente come un «intrico difficile di ostacoli» alla corretta e coerente attuazione della sua riforma e questa troppo ferma a rispondere alle domande di quella società) circa la concreta situazione dell’operosità goldoniana nel suo legame organico con l’ambiente teatrale e nella sua alleanza con «gli uomini piú progressisti del patriziato e della società veneziana tutta»; circa l’impossibilità di trascurare gli aspetti economici della sua produzione che «giovarono a creare le condizioni per le quali le sue intenzioni riformatrici poterono prendere corpo e battere le resistenze misoneiste di attori, pubblico e proprietari di sale». Donde la proposta di vedere nel Goldoni (anche attraverso la sua autointerpretazione dei Mémoires) un autore che promosse la «sua scelta professionale» e la difese poi coscientemente anche di fronte a quei letterati francesi che, orgogliosi dell’apparente dignità e libertà procurata dai benefici regali o del contrastato diritto a una quota degli incassi teatrali, disapprovavano i vincoli contrattuali dello scrittore italiano. Questi «vivendo di teatro aveva potuto disprezzare la servitú e salvaguardare la sua indipendenza artistica». Certo resta il fatto che il Goldoni fu, a un certo punto, costretto a lasciare Venezia e che in Francia non mancò – almeno a livello personale – di benefici e di protezioni regali, e che dunque la visione del Mattozzi può apparire alla fine essa stessa suscettibile di correzioni e bisognosa di avvertimenti di cautela, per non dire del fatto che una simile storia della «professione di scrittore» del Goldoni, troppo puntata sulle condizioni «concrete» della sua operazione teatrale ed editoriale (piuttosto esagerata anche nel rilievo di una personalità combattiva, abilmente «diplomatica», attivamente borghese anche in senso professionale-commerciale), rischia di ridurre e di sottacere esageratamente la forza precipua di quel genio comico e di quella sua piú intima adesione ai valori della civiltà razionalistica e illuministica che pur il Mattozzi ricorda, appoggiandola al mio profilo goldoniano e presupponendo – piú che rispiegando e facendo valere interamente – il nodo-storico personale, qui illuminato solo e soprattutto nella prospettiva della iniziativa pratica, professionale del Goldoni.

Tuttavia il saggio, come dicevo, è ben interessante e ricco di precisazioni e proposte (se pure a volte troppo sottilmente ipotizzate) nell’arco lungo della vicenda professionale goldoniana: storia della edizione fiorentina Paperini e di quella veneziana Bettinelli, «affare» Goldoni-Medebachh, «affare» Goldoni-Bettinelli, passaggio dal teatro S. Angelo al S. Luca. E tutto (compreso il documento inedito pubblicato: l’esposto di Stefano Sciugliaga in difesa del diritto d’autore del Goldoni di fronte all’editore Bettinelli) serve a lumeggiare un aspetto notevole, se non preminente, dell’attività goldoniana, specie, ripeto, in contrasto con le troppo facili e un po’ astratte ipotesi sociologiche del Petronio, di cui il Mattozzi tiene conto, ma per praticamente rovesciarle in una storia meno «eroica», e pur impegnativa e significativa per le risorse pratiche del Goldoni (egli stesso, non si dimentichi, uomo di legge e tutt’altro che inesperto del «mondo» anche in questi aspetti piú pratici ed economici). Un particolare aspetto da scandagliare ancora meglio sarebbe poi – a mio avviso – quello dei rapporti del Goldoni con il patriziato veneziano, alla luce delle sue dedicatorie, sceverando piú a fondo la loro destinazione diplomatica e quel tanto di piú personalmente accettato in una visione sociale in realtà piú prudente e gradualistica di quanto a volte sia sembrato ad alcune interpretazioni socialpolitiche della posizione ideologica e storica del Goldoni, che non raggiunse mai (se non con il complesso fermento di libertà e di schietta simpatia per il popolo e con la novità del suo linguaggio antiaulico) le punte di un vero e proprio rivoluzionario o prerivoluzionario consapevole o di un riformatore illuminista deciso e totalmente esplicito quale fu il Parini entro la forza-limite del suo realismo classicista e del suo sfocio ideale – formale illuministico – neoclassico.

«Atti del colloquio sul tema: Goldoni in Francia», Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 1972, pp. 134.

In questo quaderno 166 della serie «Problemi attuali di scienza e cultura» dell’Accademia dei Lincei, vengono pubblicati gli atti del colloquio sul tema Goldoni in Francia, promosso dall’Accademia stessa in collaborazione con l’Ambasciata di Francia, colloquio svoltosi il 29-30 maggio 1970. Dei singoli contributi si darà qui di seguito notizia citando gli atti con il titolo Goldoni in Francia, solo in questa scheda subito ricordando, dopo le parole di apertura del presidente del colloquio Enrico Cerulli, il discorso introduttivo di Diego Valeri, Goldoni tra Venezia e Parigi. Il discorso, fine e garbato, punta soprattutto sulle ragioni della partenza e sui sentimenti del poeta nella sua decisione di lasciare Venezia (soprattutto a causa della sua difficilissima situazione nel mondo teatrale veneziano di fronte agli attacchi dei suoi noti avversari) e individua nel tono di Una delle ultime sere di carnovale – la commedia di congedo da Venezia – quella malinconia che – contro il noto giudizio desanctisiano-crociano – il Valeri pensa di poter ben ritrovare – «dissimulato dietro lo schermo del sorriso» – un po’ in tutta la posizione del poeta nelle sue riflessioni sui casi della vita. Il delicato discorso del Valeri val bene a introdurre le relazioni del colloquio in un’atmosfera cordialmente distesa adatta a contributi particolari in genere interessanti, anche se ben si avverte sia la mancanza di un dibattito, sia quella di una relazione storico-critica, che ricostruisse interamente l’attività goldoniana nel periodo parigino.

Charles Dédéyan, La fortune littéraire de Goldoni en France d’après la «Correspondance littéraire» de Grimm et Diderot, in Goldoni in Francia cit., pp. 15-32.

In questo saggio il noto comparatista francese delinea attentamente e illustra le fasi della varia fortuna (con alti e bassi, ma con prevalenza di «bassi») del Goldoni prima del suo arrivo in Francia e durante il suo soggiorno parigino: il duro attacco del Diderot, nel 1759, il tentativo goldoniano di spiegazione e di riconciliazione, a Parigi, i giudizi sul Goldoni di quella «Correspondance littéraire» che era nata per restare manoscritta e segreta e destinata ad informare sulle novità letterarie, apparse in Francia, alti personaggi stranieri (fra cui Caterina II). Soffermandosi su questi giudizi lo studioso li ripercorre nella loro successione: dopo un breve annuncio dell’imitazione francese della Serva amorosa, nel 1763, il giudizio d’insieme fortemente sfavorevole, forse ad opera di Diderot, sull’opera goldoniana, accusata di «mélange monstrueux des genres», di «trivialité» e «fadeur» e – aggiunge – soprattutto di essere un compromesso negativo fra le diverse possibilità positive della commedia regolare e della commedia dell’arte (pur con concessioni di «talento» e con rilievi positivi sul valore teatrale del Servitore dei due padroni); poi l’elogio senza riserve, nel ’64, degli Amours de Camille et Arlequin (di cui si sottolinea il carattere vero e patetico); poi ancora il ritorno ai rimproveri, quando Diderot si trovò di fronte alla versione francese della Locandiera, e cioè ad una vera commedia di carattere e «scritta», laddove egli amava in Goldoni «l’italiano» legato indissolubilmente alla commedia dell’arte con la sua felice facilità e il suo talento di improvvisatore misurabile nella diretta azione scenica; tanto che, mentre egli criticava il personaggio di Mirandolina perché non animato da una vera passione, poteva lodare la Dupe vengée, e cioè un canovaccio «plein de finesse et de gaieté», spiegando, in quell’occasione, che lo scrittore era nettamente inferiore all’autore di canovacci, e che nelle commedie scritte «les discours pour ètre trop vrais, sont presque toujours plats»: e insomma Goldoni meglio avrebbe fatto a pubblicare solo i suoi canovacci divertenti, ma non interessanti per costumi e caratteri. Dopo un lungo silenzio si può trovare nel 1771 un ritorno all’elogio, nel caso della Buona figliola, musicata da Piccinni, e di Les cinq âges d’Arlequin che, pur essendo un canovaccio, induce Diderot a rimpiangere che il Goldoni «sans renoncer à ce genre» non si sia dato a lavorare per il Théâtre français. Contraddizione? Forse non del tutto, a mio avviso, dato che, per Diderot, solo nel solco della commedia francese Goldoni avrebbe potuto superare i limiti della sua natura prevalente di scrittore «italiano» della commedia dell’arte e utilizzare il suo innegato talento in capacità di organicità dell’opera, impossibile per lui restando nei limiti «del compromesso italiano» di commedia regolare e commedia dell’arte (il che implicherebbe un lungo discorso sulle posizioni diderottiane circa i caratteri e limiti di particolari tradizioni di teatro nazionale). Quando poi Goldoni rispose al rimpianto di Diderot con il Bourru bienfaisant, Madame d’épinay espresse in proposito un giudizio contorto in cui però ritornava alla valutazione della piú vera congenialità goldoniana per i canovacci.

Definitivo, nei rapporti fra la «Correspondance» e Goldoni, il giudizio sui Mémoires, attaccati frontalmente per la incertezza delle prospettive autocritiche del Goldoni, per la loro niaiserie e non naïveté, per le replicate espressioni di soddisfazione del Goldoni per «les bonnes petites pensions et les bons diners qu’il a trouvé en France». Interessante e degno di un maggior sviluppo mi sembra proprio questo attacco al beneficiario di corte per meglio definire e precisare, nella sua vasta e varia raggiera, l’atteggiamento degli illuministi francesi, per lo piú ricordati per la loro sintomatica simpatia verso un Goldoni autore di libertà e di istanze progressiste, e qui invece, nel cerchio Diderot-Grimm-D’épinay, visto – seppure sul piano biografico e personale – come personaggio un po’ meschino, tutto beato della protezione dell’ancien régime.

Norbert Jonard, La place de la «Scozzese» dans le théâtre de Goldoni, in Goldoni in Francia cit., pp. 35-45.

Tenendo conto di precedenti contributi «fontistici» e critici lo Jonard illustra il caso, senza dubbio interessante, ma, a mio avviso, troppo caricato di significati, della commedia voltairiana Le café ou l’Écossaise (vista come elogio del Goldoni e ripresa – mescolata ai romanzi del Richardson – della Bottega del Caffè) e dell’adattamento di quella commedia da parte del Goldoni nella sua Scozzese. Mostrata la presenza (con relative differenze) del caffettiere Fabrizio e del Don Marzio goldoniani nei personaggi del caffettiere e di Frelon nella commedia volteriana, il saggio si appunta sul rifacimento goldoniano della Écossaise nella Scozzese, tanto meno direttamente polemica e insieme meno patetica del modello (in cui i toni polemici e patetici corrispondono alle posizioni di Voltaire di fronte alla comédie larmoyante «pura» e alla direzione diderottiana) e tanto piú viva, interessante, documentante l’interesse del Goldoni per quella linea «inglese» e sentimentale che egli (con consonanze diderottiane contraddette dall’omaggio a Voltaire: donde gli elementi di risentimento di Diderot per il Goldoni in Francia) aveva perseguito attraverso La buona moglie, Il padre di famiglia, La moglie saggia, La figlia obbediente, La madre amorosa, e di cui appunto la Scozzese è l’ultima prova. Lo studio, come dicevo, risulta interessante, ma appare manchevole di una prospettiva piú larga nell’evoluzione della poetica goldoniana, ricondotta troppo direttamente a linee rigide e precise entro la polemica teatrale e sociale della borghesia europea settecentesca, linee che nella reale direzione goldoniana si riflettono in forma piú sfumata e non rigida.

Gianfranco Folena, Il francese di Carlo Goldoni, in Goldoni in Francia cit., pp. 47-76.

Partendo dalla sua notissima relazione veneziana, L’esperienza linguistica di Carlo Goldoni (in Studi goldoniani, Venezia-Roma, 1960, I, pp. 143-191) il Folena precisa in questo bel contributo (certo il migliore del «colloquio» dei Lincei) la funzione del francese nel trilinguismo goldoniano, nei suoi tre piani differenziati, ma comunicanti (dialetto, lingua nazionale, lingua internazionale, qual è, nell’Europa gallicizzante, il francese) sia in generale sia nello sviluppo preciso dell’opera goldoniana. In generale il francese (come, a suo modo, l’italiano) è per il Goldoni, anzitutto e per eccellenza, una forma orale, una lingua di conversazione e, in certo modo, un meccanismo dell’improvvisazione: lingua appresa non da giovane, ma perfezionata – dopo la sessantina – negli anni del suo insegnamento a Versailles, e applicata in forma piú conquistata, ma non senza agio, nelle due commedie in francese e, molto meglio, con perfetta funzione comunicativa, nei Mémoires, del cui stile e della cui lingua – «lo stile si è fatto lingua» – il Folena studia particolari caratteri e funzioni: distinzione binaria come strumento colloquiale, espressione di una «cordialità fiduciosa e comunicativa, ridondante eppur misurata nel flusso e riflusso del discorso: un processo di amplificazione orale caratteristica del parlato». Poi il Folena illustra – attraverso qualche episodio – la storia del francese come lingua comica all’interno del teatro goldoniano risalendo all’intermezzo in versi per musica Monsieur Petiton (1736) col suo franco-italiano «grammaticalmente incredibile in bocca a un francese che italianizzi e invece francese di un italiano che si sforza di parlare francese, come poteva essere il caso dello stesso giovane Goldoni ed il caso del pubblico cui egli si rivolgeva con efficacia diversa dalla piú filologicamente corretta posizione caricaturale del Maffei nel Raguet, adatto solo ad un pubblico da salotto letterario». Un caso diverso di utilizzazione teatrale della caricatura del francese e dell’impasto franco-italiano è quello di Una delle ultime sere di carnovale (1762) nella parlata di Madame Gatteau, misurato, con grande sapienza e sensibilità musicale e psicologica della lingua, fra veneziano, italiano mischiato al francese, francese (è l’esame piú fine di questa bella relazione e apporta spunti utili ad un esame intero di quella commedia). Fra questi due estremi il Folena rileva poi l’ambientazione felicissima (socialmente distinta fra gli strati borghesi e popolari) dei francesismi, per passare a studiare, con maggiore ampiezza, l’uso del francese sul doppio fronte, a Parigi, dei canovacci per la Comédie italienne e delle commedie di carattere per la Comédie française, notando, sulla base di passi sintomatici, «come, a parte i francesismi riflessi o evocativi o documentari, l’interferenza del francese nell’italiano del Goldoni assuma, nelle commedie italiane scritte in Francia, aspetti piú massicci e talora patologici non solo nel lessico, ma anche nella struttura grammaticale», come nelle due commedie scritte in francese queste «appaiono veramente passate in francese», come, infine, in queste e nei Mémoires «l’interferenza grammaticale e lessicale dell’italiano appaia limitatissima».

Elena Bassi, Le illustrazioni italiane e francesi delle commedie goldoniane, in Goldoni e la Francia cit., pp. 77-85 (con dieci tavole).

La relazione della Bassi è folta di indicazioni utili (agevolate dall’appendice di riproduzioni) sulle illustrazioni italiane e francesi delle edizioni delle commedie goldoniane, collegate al rapporto fra testi e illustrazioni di Molière (e quindi all’interferenza di tali illustrazioni nella storia relativa al Goldoni), ma appare troppo affollata e costretta entro un discorso troppo sommario e non sempre ben dispiegato. Insomma, per meglio far valere gli spunti interessanti circa i reciproci stimoli fra illustratori e poeta comico e sull’ambiente comune che è alla base di quelli e di questo, sarebbe stato necessario un discorso piú articolato ed ampio. Tuttavia certe indicazioni, specie sulla diversità degli illustratori della edizione Pasquali («tutti eleganti e puntuali») e di quelli dell’edizione Zatta (piú discorsiva, particolareggiante, piú legata alle teorie pedagogiche dell’illuminismo e con un nuovo modo di incidere collegato a un nuovo modo di disegnare: ma certo, a mio avviso, con esempi – si pensi all’incisione all’apertura del Campiello – di incantevole e ben goldoniano poetico realismo e fertilissima di suggerimenti scenografici usufruibili tuttora), sono già qui fortemente stimolanti anche se meriterebbero (ripeto) che la studiosa le riprendesse in uno studio piú ampio, nel quale mi permetterei di suggerire di rivedere la posizione circa il noto avvicinamento fra Goldoni e Pietro Longhi, tenendo ancora conto sia dello studio di R. Longhi sia delle riserve che in proposito furono fatte da alcuni studiosi del Goldoni (per parte mia rimando alla mia recensione al volume R. Bacchelli e R. Longhi, Teatro e immagini del Settecento italiano, Torino, 1953, uscita a suo tempo in questa rivista e poi ripubblicata in Classicismo e Neoclassicismo nella letteratura del Settecento, Firenze, La Nuova Italia, 1963, 1967).

Gérard Luciani, Goldoni et la critique française au XIXe siècle, in Goldoni e la Francia cit., pp. 89-119.

Il Luciani, autore di una efficace relazione al congresso di Magonza su Carlo Gozzi e la critica francese della prima metà dell’Ottocento (in Problemi di lingua e letteratura italiana del Settecento, Wiesbaden, 1965, pp. 124-141), e impegnato da tempo nella redazione di una monografia gozziana, offre qui un quadro assai lucido e preciso della critica francese ottocentesca sul Goldoni: critica di cui preliminarmente lo studioso afferma la relativa ripetitorietà di pregiudizi e di incomprensioni, fra sciovinistici e antirealistici, dall’inizio alla fine del secolo, quando «sembra» costituirsi in Francia una critica goldoniana nuova, ma che sostanzialmente riflette i malintesi di fondo persistenti nei confronti dell’opera e della personalità goldoniana. Malintesi còlti all’inizio del secolo (con l’eredità negativa dei giudizi dati in Francia nello stesso periodo parigino del Goldoni) anzitutto nella sciovinistica opposizione alla pretesa italiana di presentare Goldoni come un nuovo Molière, di fronte al quale Molière, ai critici francesi Goldoni appare mancante di profondità, notevole solo per la sua naturalezza e veridicità, inaccettabile per certi aspetti «immorali» e non «delicati» dei suoi personaggi – specie femminili – e persino per certe sue preferenze per gli strati sociali «bassi». Tutto ciò è riassunto nel giudizio del Ginguéné e ritrova bile in parte anche in un lettore d’eccezione come Stendhal (che preferiva Gozzi a Goldoni). Dopo essersi soffermato sulla ammirazione piú aperta di Sismondi, il Luciani ripercorre i giudizi di minori critici romantici e classicisti, e, constatato verso il 1870 un tentativo di critica piú seria, si ferma a considerare la nota opera del Rabany, Carlo Goldoni, le théâtre et la vie au XVIIIe siècle, del 1896, piena di sciovinismo anche se notevole per la documentazione scrupolosa. Alla fine del secolo la rappresentazione, a Parigi, della Locandiera da parte della Duse rilancia Goldoni, ma con un certo gusto di recupero nostalgico della grazia settecentesca. Sicché solo tanto piú tardi e solo ad opera del grande attore Jouvet, prefatore di una edizione dei Mémoires, la Francia potrà esprimere, seppure in termini, in verità, tanto autorevoli quanto vaghi, la sua simpatia e ammirazione per l’eccezionale qualità goldoniana di uomo di teatro: «C’était un homme qui avait le sens du théâtre. Indéniablement. Ce que ni lui ni nous ne pouvons expliquer. Sans doute le reconnait-il puisque il termine ses Mémoires par cette phrase charmante: “J’ai toujours été pacifique et j’ai toujours conservé mon sang froid. A mon âge, je li speu, et je ne lis que des livres amusants”».

Luigi Squarzina, Gli addii del Goldoni all’Italia e «Una delle ultime sere di carnovale», in Goldoni e la Francia cit., pp. 121-130.

Il discorso si apre con alcune considerazioni del noto regista sullo scarto fra la diffusione e alta valutazione all’estero degli spettacoli goldoniani di compagnie italiane («spettacoli che costituiscono forse la maggiore esportazione teatrale italiana») e la scarsa comprensione del «tipo di azione teatrale che Goldoni permette» (donde la possibilità di uno studio che potrebbe, a mio avviso, riuscire molto interessante, e per Goldoni e per la regia goldoniana, nonché per il rapporto fra questa e il tipo dell’accoglienza straniera, spesso o troppo concessiva al pregiudizio di varie tradizioni teatrali nazionali circa un Goldoni solo prosecutore ed esaltatore della commedia dell’arte, o, viceversa, a quella di un Goldoni «petit bourgeois» razionalistico-moralistico secondo la tradizione del neoclassicismo e del «teatro puro» piú propenso a Carlo Gozzi che a Goldoni) e sulla storia (assai complessa) degli spettacoli goldoniani: fase 1930-43, fase del dopoguerra (e dunque Squarzina stesso, Strehler, Visconti, De Bosio), nuova fase aperta dalla Trilogia della Villeggiatura di Strehler, ultima fase con la rappresentazione appunto di Una delle ultime sere di carnovale da parte di Squarzina (rappresentazione che vorrebbe «mostrare Goldoni nella sua natura, smascherarne l’apparente superficialità, dimostrarne la capacità di toccare molti aspetti dell’animo umano molto di piú di quanto non si dica di solito – e di toccarli in un modo che era allegro, soave, ma denso di amarezza, sempre affidato alla piacevolezza dell’avvenimento scenico»).

Si tratta di un bilancio un po’ sommario che comunque sollecita ad uno studio approfondito e puntuale della storia piú recente della regia goldoniana fin alla divaricazione in Strehler fra accentuazione (certo suggerita da quel testo) mimico-scenica del Servitore di due padroni e quella piú realistico-romantica e molto alta delle Baruffe, fra l’utilizzazione un po’ pretestuosa e raffinatissima delle Morbinose (con al centro la stupenda, incantata scena del falso pranzo) da parte della «Compagnia dei Giovani», il tentativo dello Squarzina in direzione del giuoco iperaccentuato dei Due gemelli veneziani (cioè di testi piú adatti a tal direzione, ma poeticamente nettamente minori) e, appunto, la piú recente rappresentazione squarziniana che mira a rendere il fondo piú«umano» di Una delle ultime sere di carnovale, che in questa sede il regista, facendosi critico (cioè esplicitando il critico immanente nel regista) esamina a lungo. Per la verità l’esame non risulta, a mio avviso, interamente soddisfacente e può rivelare cosí certi limiti della stessa regia (un migliore affiatamento, del resto, fra registi e critici goldoniani gioverebbe assai ai registi, cosí come – evidentemente – esso gioverebbe moltissimo agli stessi critici, privi – spesso per mancanza di esperienza e per limiti d’immaginazione – di una prefigurazione registica-teatrale dei testi «teatrali» da essi studiati troppo letterariamente). Cosí – nell’esame spesso un po’ parafrasastico della commedia – mi pare poco accettabile «l’impressione» di Squarzina che, alla partenza da Venezia, Goldoni avesse «l’idea di non essere riuscito quasi a niente» nella sua riforma. E il successo e la consistenza degli ultimi capolavori veneziani? Né mi convince l’affermazione che il fascino della commedia esaminata sia «l’insieme delle bugie che vi sono dentro», e che Goldoni fosse stanco di fronte alla novità, mentre novità poi sarebbero la scena di «autentica psicoanalisi di gruppo» del giuoco della Meneghella, il nuovo uso della lingua come «esclusivo indice semantico» con il risultato di «un quadro divisionista», donde il giudizio generalizzato che tutto Goldoni è «strettamente legato alla tecnica (piú quindi alla poetica che alla estetica») e che la regia per Goldoni non può muovere dai «contenuti» (come farebbe per i tragici greci o per Shakespeare o per Molière) per poi arrivare alla tecnica: che è un discorso confuso e comporta un’idea della «poetica» che può dimostrare quanto sia poco chiara in molti registi la nozione e l’uso della nozione di «poetica» (mai solo tecnica, e sempre implicante la visione della vita che qui verrebbe negata: al Goldoni in qualsiasi misura).

Non è quindi un caso che proprio la regia squarziniana di Una delle ultime sere di carnovale rifletta incertezze di fondo del critico-regista e oscilli (come il discorso critico, del resto tutt’altro che privo di spunti volenterosi e stimolanti sull’«intellettuale» italiano, su attori italiani e francesi) fra spinte piú centrali e sottigliezze tecniche piú vaghe ed incerte, fra colorismo ambientale e accentuazioni patetiche a volte sin eccessivamente caricate intorno al tema dell’addio struggente e nostalgico pur ben afferrato malgrado il contrasto fra la dimensione tutta tecnica della commedia e quella piú personale-poetica cosí fortemente rilevata nelle frasi sopra riportate circa il «fondo umano della commedia».

«La Rassegna della letteratura italiana», a. 76°, serie VII, n. 2-3, maggio-dicembre 1972

Siro Ferrone, recensione a Carlo Goldoni, Commedie, a cura di Kurt Ringger, Torino, 1972, «Antologia Vieusseux», aprile-settembre 1972, pp. 66-68.

Premessa l’osservazione che solo di recente si è giunti ad un apprezzabile equilibrio di risultati, capaci almeno di avviare, con alcuni parametri di giudizio chiarificatore, una rilettura delle opere complessive del Goldoni (nel settore storico-critico-linguistico gli studi del Dazzi, del Folena, del Binni, del Baratto e, nel settore registico, le regie di Visconti, Strehler, Squarzina: settori fra cui ora esiste una vivace osmosi, impensabile in altri tempi), il recensore rileva anzitutto nella vasta raccolta del Ringger alcune grosse lacune (come la mancanza di Una delle ultime sere di carnovale e di due commedie della trilogia della villeggiatura) compensate in parte dalla presenza in appendice di testi meno noti dell’esordio goldoniano, la scrupolosità delle note, la essenzialità della nota bibliografica, per poi valutare l’introduzione del curatore il quale, con il suo metodo «largamente debitore alla semiologia e allo strutturalismo», «fedele ed erede della piú recente simbiosi tra critica storico-letteraria e prassi drammatica», approda a risultati interessanti e in parte nuovi in sede tecnica (la messa in rilievo del ritmo ternario, la biunivoca corrispondenza tra sintassi linguistica e struttura dell’intreccio, l’individuazione dei segni piú tipici del vocabolario teatrale goldoniano attraverso il censimento delle costanti; la mimica, le macchiette, il gesto scenico, il montaggio delle scene, gli effetti acustici, gli oggetti scenici «dei quali si rivaluta tutta l’importanza mediatrice»), ma non riesce a storicizzare tale analisi tecnica in rapporto alla società teatrale veneziana del Settecento, sicché i suoi risultati sono «tutti circoscritti all’interno del teatro e i giudizi di valore sempre mediati dal confronto musicale, costretto a scegliere tra la maggiore o minore armoniosità del ritmo ballettistico o della struttura generale» con il rischio di una interpretazione regressiva di Goldoni che il Ferrone trova verificata nella recente regia del Missiroli della Locandiera tutta insistita sul tema della provocazione irrazionale: la stilizzazione musicale del Ringger e questa regia, esempio di «realismo volgare», porterebbero a scindere e a estremizzare la stilizzazione e il realismo che sono interni e dialettici al Goldoni.

«La Rassegna della letteratura italiana», a. 77°, serie VII, n. 2, maggio-agosto 1973

Guido Nicastro, Modernità di Goldoni, «Syculorum Gymnasium», II (1972), pp. 219-244.

Delineato un contrasto tra la grande fama del Goldoni e una sostanziale incomprensione e un reale disinteresse per la sua figura di uomo e di scrittore, il Nicastro ripercorre la storia della critica goldoniana ricercandovi gli appoggi e gli scarti innovatori rispetto al cliché scolastico che presenterebbe in genere un Goldoni «poeta ilare e sorridente» e la sua opera come una sorta di «Arcadia cittadina»: prima la linea di impoverimento della figura e dell’opera goldoniana iniziata dal Momigliano e avallata dal Croce, e quella del teatro puro (fra regia estetizzante e ballettistica e critica in chiave di opera buffa: Apollonio, Rho, D’Amico, Flora), poi i tentativi nuovi nell’ultimo dopoguerra tesi a far valere, nell’ambito di un’estetica latamente marxista, l’ideologia, il valore del realismo, il significato sociale del teatro goldoniano: prima le posizioni del Givelegov e del Dazzi troppo basate sull’attribuzione al Goldoni di una programmatica volontà eversiva nei confronti della società feudale; poi gli scritti piú giustamente orientati del Baratto e del Fido, mentre Visconti, Strehler e soprattutto Squarzina (e magari Missiroli) davano cospicui esempi di una regia adatta a render scenicamente un’immagine per nulla edulcorata e convenzionale di famosi testi goldoniani, nella chiave di una rappresentazione realistica di un ambiente e di personaggi che vivono alle soglie della grande crisi rivoluzionaria entro caratteristiche di una vecchia società decadente. Ricordata poi la stagione ’60-70 – con i saggi miei, del Ringger, del Petronio – il Nicastro punta piú ampiamente su questi ultimi anni dominati, a suo avviso, dal capovolgimento della visione storiografica nazionale del De Sanctis e dalla «crisi dei modelli» (che porterebbe, nel campo degli studi goldoniani, a vincere anche le tentazioni di tanta generica critica marxista contenutistica, basata sull’impegno sociale e il realismo filopopulista) e aperti quindi alle considerazioni che egli personalmente affaccia nella ricerca del significato e del ruolo che l’esperienza goldoniana «storicamente e geograficamente localizzata secondo coordinate precise, ha avuto nelle vicende del teatro e della letteratura non solo italiani ma europei... per la formazione di una coscienza culturale moderna».

Si tratterebbe in sostanza di non fermarsi alle constatazioni della situazione politico-culturale di Venezia, dell’ideologia dello scrittore, della sua maggiore o minore adesione ai princípi dell’Illuminismo, dei limiti della sua posizione «borghese», ma di «esaminare oltre le ‘intenzioni’ i risultati raggiunti che, nel caso del Goldoni, vanno spesso al di là delle posizioni programmatiche, di «cogliere gli elementi mediativi che permettono di giungere a una determinata ‘struttura’ e di constatare il significato oggettivo di questa ‘struttura’ nel contesto della realtà». Proposta che il Nicastro esemplifica nel caso della Locandiera, dei Rusteghi, della Casa nova, della trilogia della villeggiatura: esemplificazioni attraverso le quali, in un discorso certo sollecitante, ma piuttosto confuso (anche a livello metodologico), il critico giunge alle sue conclusioni, secondo le quali il teatro goldoniano sarebbe una «splendida esperienza, ma isolata; modernissima, ma incapace in quanto tale di fare storia», avulsa come sarebbe da un movimento organico di cultura teatrale e non teatrale «sí che di fronte a una storia, quella italiana, mancante di una grande tradizione borghese» far valere la realtà di un Goldoni come «pittore di decadenza borghese» è impresa estremamente difficile. «Non è un caso che la nuova interpretazione abbia trovato in due registi di formazione mitteleuropea, Luchino Visconti e Giorgio Strehler, i suoi piú convinti corifei. Occorreva l’esperienza della grande letteratura della decadenza, da Cechov a Mann, a Proust, perché anche Goldoni potesse ritrovare nella galleria degli scrittori il posto che degnamente gli spetta».

Tutto il discorso del Nicastro si presenta certo interessante e impegnativo, ma assai confuso e azzardato e, alla fine, mentre è inaccettabile l’estrazione assoluta del Goldoni dal complesso della nostra letteratura dal ’700 a oggi (vista come retorica e provinciale, con giudizi nettamente negativi come quello sull’Alfieri di cui si può invece ben ritrovare una forza storica e una modernità se non si accede alla pigrizia e allo snobismo) e discutibili appaiono molto spesso i giudizi precisi sulle varie posizioni della critica goldoniana, non pare giusto trasferire senz’altro il Goldoni dalla sua effettiva situazione storico-personale a quella della letteratura odierna e accettare indiscriminatamente una chiave di attualizzazione soprattutto registica (anch’essa da meglio verificare: ad es. il modo di regia della Locandiera da parte del Missiroli) come l’introduzione sicura ad una nuova valida interpretazione e valutazione critica del teatro goldoniano.

«La Rassegna della letteratura italiana», a. 77°, serie VII, n. 23, settembre-dicembre 1973


1 Qui alle pp. 23-25.@@@@@@@@@@@@